Giorgio Napolitano è stato rieletto. Si va verso il Governo del Presidente

Il sì del Pd per un governo del Presidente. In pole position Giuliano Amato e Enrico Letta, entrambi graditi a Berlusconi.

Al Colle studiano anche soluzioni alternative per evitare un ulteriore stallo come nel caso del preincarico affidato a Bersani. Martedì reincominciano le consultazioni. Sarà una maggioranza composta da PD, Pdl, Lega e Scelta Civica.

napolitano-amato
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ROMALe elezioni elezioni sono state una prova cruciale e difficile, ora ognuno faccia il suo dovere. Queste le prime parole di Giorgio Napolitano che è stato rieletto presidente della Repubblica alla sesta votazione: alle 18.18 ha superato quota  504 voti e la Camera ha accolto la notizia con un lungo applauso. In tutto ha preso 738 voti.

È la prima volta dal 1946 che al Quirinale un capo dello Stato succede a se stesso. Stefano Rodotà, sostenuto da Movimento 5 Stelle e Sel, è a 217 voti. 10 sono state le schede bianche, 11 le nulle, 19 i voti per gli “altri”, fra i quali il capitano Ultimo Sergio De Caprio e Francesco Guccini.

Al momento dell’applauso che ha salutato l’elezione di Napolitano, tutto l’emiciclo si è alzato ad applaudire tranne i parlamentari del Movimento 5 Stelle. Questo ha causato dei litigi fra i grillini e gli altri elettori, provocando l’interruzione dello spoglio.

Quando la presidente della Camera Laura Boldrini ha letto i risultati del voto ed è arrivata ai consensi presi da Rodotà, il centrosinistra ha applaudito, mentre senatori e deputati M5S hanno gridato “Ro-do-tà! Ro-do-tà!”. Qualcun altro invece ha cantato l’inno di Mameli.

“Dovete buttare quei maledetti telefonini: sono tutte cazzate quelle sul governissimo, con Napolitano non ne abbiamo parlato!”. Così urlava ieri mattina Pierluigi Bersani, riferendo ai parlamentari del Pd del colloquio avuto in mattinata con il capo dello Stato. E la stessa versione la dà Angelino Alfano al cronista che lo incrocia alle otto di sera in un Transatlantico ormai deserto: “Io a palazzo Chigi come vicepremier? Se ne dicono tante, ma è prematuro. Comunque non ne abbiamo parlato”. Eppure, nonostante la comprensibile prudenza dei dirigenti del Pd e del Pdl, della composizione del governo e di chi sarà chiamato a guidarlo se ne è discusso eccome.

Anzi, è stata proprio questa la condizione che Napolitano ha posto ieri mattina per l’accettazione della “croce” (così l’ha chiamata) di nuovo sulle sue spalle: “Adesso la situazione è cambiata rispetto a un mese fa. E questa volta non voglio sentire dei no ma soltanto dei sì”. E visto che, fino all’ultimissimo minuto, Napolitano ha provato a insistere affinché i partiti mandassero sul Colle Giuliano Amato al posto suo, a tutti è parso chiaro quale sia il nome a cui il capo dello Stato sta pensando per l’incarico. Uno dei governatori regionali, appena sceso dal Quirinale, in Transatlantico conferma infatti che Napolitano ha chiesto a Pd e Pdl di dar vita a un governo “che duri almeno tre anni”, guidato appunto da Giuliano Amato. Il programma “dei cento giorni” è quello elaborato dai dieci saggi bipartisan. E ci saranno esponenti di vertice dei partiti per garantire la tranquilla navigazione del governo in Parlamento. Si pensa infatti a Enrico Letta e Angelino Alfano come vicepremier per blindare l’accordo delle larghe intese. “Sappiamo tutti – sospira Gregorio Fontana, questore Pdl della Camera – che il nuovo governo dovrà fare subito una manovra durissima. Per cui, se durasse meno di un anno, non avremmo il tempo per risalire la china”.

Se Amato è la scelta principale per palazzo Chigi, Napolitano sta riflettendo ovviamente su un piano di riserva. Da politico navigato è consapevole delle spinte centrifughe dentro il Pd, spaccato in due sull’ipotesi della grande coalizione, e teme che il nome del Dottor Sottile possa provocare una vera crisi di rigetto tale da mettere a repentaglio l’intera operazione. Tanto che i vertici del Pd per tutto il giorno si sono affannati a chiarire che “non esiste nessun governo di larghe intese”, ma viene riconfermata soltanto la disponibilità a un esecutivo di scopo “con un programma limitato”. Una cautela giustificata dai rumors su una imminente scissione nel partito. Nei corridoi del Parlamento si parla infatti di un gruppo di fuoriusciti democratici che dovrebbe costituirsi alla vigilia del voto di fiducia proprio per opporsi alle larghe intese e poi dar vita, insieme a Vendola e Barca, alla “nuova sinistra riformista”. Per capire la dimensione del caos interno al partito basta dire che ieri sera il portavoce nazionale, Andrea Orlando, proprio nella giornata in cui Grillo ha definito “un golpe” la rielezione di Napolitano, ha clamorosamente riaperto al M5S: “I grillini dicevano che Bersani era l’ostacolo alla possibilità di ragionare su una loro presenza nella maggioranza di governo. Ora che Bersani non c’è più – ha dichiarato a “In Onda” – ci dicano se sono disponibili a dare un governo a questo Paese”.

Per evitare questa diaspora o quantomeno ridurne la portata, Napolitano starebbe quindi valutando delle ipotesi subordinate. Come quella di affidare l’incarico a una personalità politicamente più digeribile, ma sempre di area centrosinistra: Pietro Grasso. Il presidente del Senato, eletto con il Pd e più “fresco” come immagine, avrebbe l’ulteriore vantaggio di liberare la seconda carica dello Stato a vantaggio di un esponente del Pdl. Già, perché se i problemi principali per la formazione di un esecutivo di larghe intese o di scopo provengono dal Pd, anche il sì del Pdl non deve essere dato per scontato.

Nella riunione avuta in serata con i dirigenti del partito, il Cavaliere ha infatti espresso più dubbi che certezze: “Ci sono ancora troppe divergenze su alcuni problemi importanti, come l’Imu e la giustizia”. Insomma, non è detto che a Berlusconi non convenga a questo punto, ottenuta la riconferma di Napolitano al Colle, puntare dritto alle elezioni anticipate forte dei sondaggi favorevoli. “Questi giovani che il Pd ha portato in Parlamento – osserva Maurizio Gasparri – sono imbevuti di un antiberlusconismo viscerale. È la loro ideologia, quella che ha sostituito il marxismo, e su queste basi è difficile collaborare”. Lo scetticismo sul governo del Presidente è diffuso. Anche se a presiederlo venisse chiamato direttamente un esponente democratico come Enrico Letta, con Alfano come vice. I giovani turchi, è la voce che rimbalza dal Nazareno, hanno già fatto sapere che non vogliono Letta né come reggente del partito né come capo del governo.

C’è poi la questione della Lega, di cui Berlusconi deve tenere conto. Roberto Maroni, accompagnato da Roberto Calderoli, è andato a pranzo sabato con Daniele Marantelli, il deputato democratico che tiene i rapporti con il Carroccio. I due leghisti hanno spiegato chiaramente all’ambasciatore Pd che su un governo Amato non ci potranno stare “mai e poi mai”. E anche nell’ipotesi di un esecutivo presieduto da Enrico Letta o da un altra personalità scelta da Napolitano, la Lega darà la fiducia ma poi se ne resterà fuori: “Non entreremo con nessuno dei nostri”. Questa ostilità del Carroccio verso Amato è una pregiudiziale che al Pd può tornare in realtà molto utile. Se infatti Amato, che spacca i gruppi Pd, venisse fatto fuori dal veto di Maroni, i democratici potrebbero trarre un sospiro di sollievo e passare oltre. Ma al momento queste sono tutte congetture visto che, come fa notare un autorevole esponente del Nazareno, “con il Pd in queste condizioni comatose la verità è che nessuno di noi è in grado di dettare condizioni al capo dello Stato”.

Tratto ancge da Repubblica

Roma, 21 aprile 2013

1 commento su “Giorgio Napolitano è stato rieletto. Si va verso il Governo del Presidente”

  1. Il commento del Prof. Paolo Becchi chiarisce in maniera definitiva quello che è successo. Tutto il resto è … noia!:
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    “Cerchiamo anzitutto di riassumere quanto è accaduto negli ultimi mesi. Il successo elettorale conseguito dal MoVimento 5 Stelle è andato al di là di ogni realistica previsione: 163 parlamentari per una nuova forza politica rappresentano di per sé una vittoria. Il MoVimento avrebbe voluto cominciare a lavorare seriamente nel Parlamento, ma questo non è stato possibile. Si è tentato di costringerlo a un voto di fiducia ad un governo a guida Bersani che con il senno di poi avrebbe implicato lo strangolamento dello stesso MoVimento. Il PD era già sull’orlo del precipizio e il MoVimento sarebbe finito nel baratro insieme a lui. Ecco perché la linea di non accettare l’accordo, un accordo finto perché mirante soltanto agli interessi del PD, era del tutto condivisibile. Tuttavia si sarebbe potuto cominciare a operare e lavorare costruttivamente nel Parlamento e invece si è voluto impedire il funzionamento di quello che è il cuore della nostra democrazia. E così un movimento che mira alla democrazia diretta ha dovuto farsi paladino della stessa democrazia rappresentativa tradita dagli altri partiti. La crisi continuava e si avvitava su se stessa. Il governo era in carica, ma il Parlamento paralizzato. Tutto nell’attesa del nuovo Presidente della Repubblica e del conferimento di un nuovo incarico di governo. Alle Quirinarie il MoVimento ha votato con il cuore e con la testa, proponendo come primi tre nomi una donna, Milena Gabanelli, e un uomo, Gino Strada, della società civile e un giurista di caratura internazionale, Stefano Rodotà. Alla fine dopo la rinuncia dei primi due candidati è subentrato il terzo, una delle figure più autorevoli della cultura giuridica nel nostro paese e che pur nella sua indipendenza (è stato un tempo uno degli indipendenti di sinistra) ha sempre appartenuto alla sinistra. Sembrava quasi naturale che un partito sedicente di sinistra potesse convergere su questo nome. Un uomo di quella levatura giuridica sarebbe stato comunque il garante di tutti e avrebbe svolto la sua funzione di super partes, fondamentale per un Presidente della Repubblica. E invece hanno offerto al popolo italiano uno spettacolo indecoroso e, diciamolo pure, mortificante per le persone che sono state mandate al massacro: prima Marini e poi Prodi. A questo punto non restava altro che constatare la completa dissoluzione, liquefazione di un partito, quello democratico, che sin dal suo inizio era attraversato da latenti contraddizioni. Su questo deserto non c’era altra via per ricompattare quel che restava della partitocrazia che recuperare Re Giorgio. Ma cosa è avvenuto nella votazione di ieri sera? Suscitando lo sdegno di tutti ieri Beppe Grillo ha parlato di un “colpo di Stato, che avviene furbescamente con l’utilizzo di meccanismi istituzionali”. Si tratta di un’affermazione che può sembrare del tutto inadeguata e addirittura pericolosa, così la giudica infatti tutta la stampa unanime, perché quando si parla di golpe siamo abituati a pensare a un colpo militare, a un cosiddetto pronunciamiento, per usare l’espressione della tradizione spagnola. Esistono tuttavia svariate tecniche del colpo di Stato, come già aveva mostrato Curzio Malaparte nel suo saggio del 1931. Quello classico fu attuato da Luigi Bonaparte nel 1851 quando diede il colpo di grazia a quella Repubblica di cui lui stesso era Presidente per riuscire a farsi proclamare Imperatore di Francia. La cosa è ben descritta in un celebre saggio di Karl Marx del 1852, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte. Ci fu in quel caso una violazione dell’assetto costituzionale esistente e un suo mutamento: il Presidente divenne Imperatore dei francesi. Non è quello che è avvenuto ieri in Italia. Il Presidente è restato Presidente, non è stato incoronato Imperatore, ma è il primo Presidente della storia repubblicana ad assumere due mandati contro quella che era sino ad oggi una consuetudine costituzionale, quella cioè contraria ad una rielezione del Presidente della Repubblica. Inoltre è il primo Presidente della Repubblica ad essere applaudito in Parlamento, ma oggetto di una sollevazione popolare nelle piazze d’Italia. Il Coup d’État per Gabriel Naudé, che per primo se ne occupò nel 1639 nelle sue Considérations politiques sur le Coup d’État, ha le più svariate caratteristiche e tende pure a confondersi con la “ragion di Stato”. Ebbene è proprio questa ragion di Stato che ci ha consegnato ieri la rielezione di Napolitano.
    Lo stesso Napolitano d’altro canto qualche mese fa aveva messo in evidenza i rischi per la democrazia di un suo secondo mandato. Riportiamo qui integralmente il testo di una lettera scritta da lui al quotidiano, oggi non più esistente, “Pubblico” e pubblicata il 28 settembre 2012: “Caro direttore, Le scrivo per sgomberare – spero definitivamente – il campo da ogni ipotesi di ‘Napolitano bis’. Non è solo un problema di indisponibilità personale, facilmente intuibile, da me ribadita più volte pubblicamente. La mia è soprattutto una ferma e insuperabile contrarietà che deriva dal profondo convincimento istituzionale che il mandato (già di lunga durata) di Presidente della Repubblica, proprio per il suo carattere di massima garanzia costituzionale, non si presti a un rinnovo comunque motivato. Né tantomeno a una qualche anomala proroga.”. Evidentemente Napolitano ci ha ripensato. La vecchia stagione del compromesso storico doveva concludersi con un inciucio storico ed è per questo, contraddicendo quanto da lui stesso affermato, che alla fine ha accettato il secondo mandato.
    Non vi è dubbio che tutto sia avvenuto ancora una volta nel solco della legalità, ma la legalità in questo caso è diventata un’arma contundente con la quale si è voluto colpire il popolo italiano. I partiti moribondi hanno ricevuto una boccata di ossigeno, ma avranno ancora qualche mese, al massimo un anno di vita, non di più, perché il virus del MoVimento ha ormai infettato il loro corpo e non si riuscirà più a debellarlo.” Paolo Becchi

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