La riduzione dei rifiuti: Una scommessa perduta

La scorretta gestione di tali rifiuti provoca danni al territorio, e altissimi costi per la bonifica e il ripristino ambientale.

Montagne di rifiuti

di Erasmo Venosi

Gli obiettivi fondamentali della gestione dei rifiuti dovrebbero essere la riduzione delle quantità e della pericolosità prodotte, la massimizzazione del recupero e del riciclaggio di materia, in un’ottica di sviluppo compatibile, finalizzato alla tutela della salute e dell’ambiente. Una corretta politica ambientale deve porsi l’obiettivo di scindere crescita economica e produzione di rifiuti.

Valutando retrospettivamente i risultati raggiunti, non ci sembra sia stato realizzato l’obiettivo primario della riduzione dei rifiuti prodotti. Nel 1997, primo anno del decreto Ronchi, i rifiuti urbani erano pari a 26,6 milioni di tonnellate, nel 2001 29 milioni e, con l’ultimo dato riferito al 2008, erano pari a 32,5 milioni di tonnellate.

I rifiuti speciali da 72 milioni di tonnellate del 2000 a 117 del 2006! Eppure i rifiuti generano emissioni nocive, se sono inceneriti, o possono inquinare le falde se smaltiti in discariche, creando costi sociali notevoli. Importante l’attenzione dei media sui rifiuti urbani, ma riteniamo dovrebbe essere ancora più importante e significativa, proprio per motivi ambientali, l’attenzione sui rifiuti speciali di origine industriale. Almeno 26 milioni di rifiuti speciali scompaiono nel nulla (Rapporto Commissione Parlamentare su ciclo rifiuti).

Una scorretta gestione di tali rifiuti provoca danni al territorio, e altissimi costi per la bonifica e il ripristino ambientale. Dal punto di vista economico il problema rifiuti può essere analizzato attraverso il concetto di esternalità negativa. Esemplificando: gli effetti prodotti dalla produzione di rifiuti sono scaricati non su chi li produce, ma sul benessere di altri soggetti non direttamente coinvolti nella produzione. Si tenta di risolvere il problema con vari strumenti: “la tassa di Pigou“ o con il “teorema di Coase. L’approccio di Pigou consiste nel tassare chi produce i rifiuti con tasse o tariffe per indurlo a ridurne la produzione.

La legislazione comunitaria imposta il problema delle esternalità da rifiuti attraverso la soluzione di Pigou. Il legislatore italiano ha accettato questa impostazione che consente di correggere i comportamenti individuali. La tassa sui rifiuti è prevista dall’art 49 del decreto Ronchi: la finalità della tariffa è di coprire il costo del servizio di gestione dei rifiuti, e promuovere comportamenti ambientalmente compatibili e mirati al contenimento degli sprechi. In tal modo grava sull’utente il costo del servizio di gestione dei rifiuti. La tariffa quindi è l’applicazione del principio “chi inquina paga”, e la componente variabile è rapportata alla quantità di rifiuti prodotti e conferiti.

Il Comune ha la facoltà di determinare la parte variabile tenendo conto dei rifiuti effettivamente prodotti, oppure ripartisce una quota dei costi variabili tra i cittadini. Solo l’Alto Adige ha adottato un sistema di determinazione puntuale dei RSU conferito da ogni utenza attuando l’applicazione del principio “chi inquina paga”, diversamente dalla gran parte dei Comuni italiani che applicano il cosiddetto “metodo normalizzato”. Solo a un terzo dei cittadini del Nord, a un quinto di quelli del centro e al 7% di quelli del sud è imputata la quota variabile, tenendo conto dell’effettiva produzione di RSU.

La sostituzione della TARSU (tassa rifiuti solidi urbani) con la tariffa viene periodicamente spostata nel tempo da parte del legislatore. La TARSU non tiene conto né della produzione dei rifiuti di ogni utenza e nemmeno della raccolta differenziata, al contrario della tariffa che collega quantità di rifiuti prodotti e ammontare del pagamento. La grave piaga dei rifiuti speciali potrebbe essere risolta con il “bilancio di massa”. Ogni prodotto connesso a un ciclo di produzione necessita di una certa quantità di materiale grezzo, e determinate sostanze chimiche con formazione di sostanze aeriformi che vengono scaricate in atmosfera, liquide e solide. Considerato che i processi sono standardizzati, è possibile determinare le quantità dei rifiuti prodotti incrociando i dati di produzione e le fatture di acquisto.

Relativamente alla raccolta differenziata, e ai “mitici” obiettivi raggiunti da alcune Regioni, va osservato che risulta improcrastinabile una concreta analisi dei materiali riutilizzati o riciclati. Infatti, se i materiali recuperati non trovano mercato, diventano rifiuti speciali che dovranno essere smaltiti o riciclati. Tali rifiuti possono prendere la via delle discariche che esistono in tutta Italia, con l’intrusione o il vero e proprio controllo da parte delle associazioni criminose! Si possono raggiungere percentuali da primato di RD, ma, se non vengono assorbiti, diventa solo la manifestazione dell’efficiente gestione, ma non un contributo al risparmio delle risorse, per ridurre gli impatti sull’ambiente e sulla salute di cittadini.

Crescita dei RSU e di quelli speciali, smaltimento in discarica per il 45% dei rifiuti prodotti, mancata adozione dei bilanci di massa dei rifiuti speciali, mancata adozione del principio “chi inquina paga” attraverso la tariffa e, infine, mancata attuazione del DM 203/2003, che comporta per le Amministrazioni Pubbliche di coprire il proprio fabbisogno di manufatti e beni con materiale riciclato nella misura non inferiore al 30%. Tali inadempienze rappresentano le condizioni di sviluppo per traffici illegali gestiti dalla criminalità organizzata, e crescita degli impatti sulle tasche e sulla salute dei cittadini, determinati da discariche e inceneritori.

L’obbligo, recentemente introdotto per le pubbliche amministrazioni, di acquistare il 30% dei propri beni attingendo dal recupero ambientale, impone di tener conto di tale significativo ulteriore sbocco finale, conformando opportunamente le operazioni di riciclo. Nel quadro giuridico nazionale va menzionato anche il D.M. 8 maggio 2003, n. 203 “Norme affinché gli uffici pubblici e le società a prevalente capitale pubblico coprano il fabbisogno annuale di manufatti e beni con una quota di prodotti ottenuti da materiale riciclato nella misura non inferiore al 30% del fabbisogno medesimo”, che, sebbene in vigore, per motivi tecnici e procedurali a tutt’oggi non ha conseguito i risultati attesi. Le norme del Piano d’azione sul GPP (Green Public Procurement) potranno essere un utile strumento per armonizzare i principi del DM 203/2003 con quelli del Green Public Procurement, che si basa su considerazioni riguardanti l’intero ciclo di vita ambientale di beni, di servizi e di lavori e per fornire, ove opportuno, un seguito operativo alle disposizioni del decreto.

Erasmo Venosi

Quotidiano Terra del 15 luglio 2010

1 commento su “La riduzione dei rifiuti: Una scommessa perduta”

  1. Meno male che Silvio c’è. Le piramidi di rifiuti sono tutte lì, lasciate a marcire sotto il primo sole di primavera. Tra le 500 mila tonnellate di sacchetti putrescenti spuntano qua e là copertoni, bidoni arrugginiti, qualche tubo di ethernit. Milioni di buste puzzolenti, ammassate sui terreni sequestrati dallo Stato a Francesco ‘Sandokan’ Schiavone, formano gigantesche torri di monnezza, mentre sul terreno enormi pozze di acqua piovana si trasformano sotto l’occhio annoiato dei gabbiani in percolato tossico destinato a tracimare nei canaletti dei Regi Lagni. Acque che vengono utilizzate per irrigare i campi vicini, coltivati a cocomeri o ad agrumeti, e territorio di pascolo delle bufale;acque nere che alla fine del loro percorso scaricano i loro veleni direttamente.Dopo i giorni della vergogna, il 2010 doveva essere l’anno che sanciva definitivamente il ritorno alla normalità. Invece è iniziato nel peggiore dei modi. Prima la condanna all’Italia della Corte di Giustizia europea “per non aver creato una rete adeguata di smaltimento” e il blocco di 500 milioni di fondi comunitari, poi le immagini sui giornali del centro di Napoli nuovamente sommerso dai sacchetti. Se le foto sono simili a quelle scattate nel 2008, il lezzo è identico. È la puzza di monnezza bruciata, di sacchetti in decomposizione, è odore di affari e camorra, che come un avvoltoio non ha mai abbandonato uno dei suoi business preferiti: pure in questa fase – sospetta la Digos di Caserta che ha aperto un fascicolo – i boss dei Mallardo e delle famiglie di Casal di Principe hanno probabilmente continuato a guadagnare, piazzando imprese colluse nell’affare della raccolta. Di fatto, il miraggio evocato come un mantra da Berlusconi&Bertolaso si è dissolto al primo problema amministrativo. È bastata una protesta dei lavoratori del consorzio Napoli-Caserta per il mancato pagamento degli stipendi e il blocco dell’accesso a uno dei siti aperti negli ultimi 18 mesi per mettere in ginocchio l’intero sistema. Mentre la Corte di Giustizia Ue condanna l’Italia per la gestione dei rifiuti in Campania, rimane alta l’allerta degli esperti sulla presenza nella regione di migliaia di siti illegali in cui si stoccano ancora rifiuti pericolosi. «Con questa sentenza si riconferma la differenza tra crisi ed emergenza. Mentre l’emergenza rifiuti in Campania è stata risolta, tutto il sistema della gestione dei rifiuti nella regione rimane infatti critico», afferma all’Adn Kronos l’epidemiologo Fabrizio Bianchi, dell’Istituto di fisiologia clinica del Consiglio Nazionale delle Ricerche. «Secondo dati dell’Arpa Campania, -riferisce Bianchi- nella regione ci sono ad oggi 5.000 aree con rifiuti pericolosi, nel 2004 erano 2.500. Insomma sono più che raddoppiate». Questo dato dimostra che c’è ancora una crisi, dovuta alla presenza di rifiuti pericolosi in numerosissime aree nelle province di Caserta e Napoli, una situazione già segnalata in uno studio del 2004 e che conferma come la situazione sia tutt’altro che risolta e che le preoccupazioni sulla salute dei cittadini, già supportate da studi scientifici, avrebbero bisogno di essere rivalutate da studi aggiornati.Lo studio rilevava anche un trend di rischio in aumento per «tumore del fegato (4% uomini, 7% donne), tumore dello stomaco (5% uomini), malformazioni congenite del sistema nervoso (trend 8%) e dell’apparato uro-genitale (14%)». Un trend di rischio che i ricercatori sottolinearono che era in crescita progressivamente nei Comuni in cui «il fenomeno della ‘gestionè illegale è particolarmente grave, sia per numero di siti sia per la pericolosità dei materiali abbandonati». Quando fu pubblicato nel 2007 lo studio trovò in molte sue parti spazio in prestigiose pubblicazioni scientifiche come la britannica «The Lancet Oncology» o l’Annalis New York of Science. Interi capitoli sono stati inoltre oggetto di relazioni a congressi nazionali e internazionali, nel corso dei lavori di ricerca. Nella relazione, e nei commenti dei ricercatori, più volte è stato sottolineato che i rischi ed i problemi per la salute delle persone non nascono «dalle discariche ben fatte cioè progettate e gestite a norma, o da inceneritori ben fatti cioè progettati e gestiti a norma». «I rischi per la salute arrivano, come dimostrato nello studio, da discariche illegali o abusive non costruite a norma e dove si fa stoccaggio incontrollato di rifiuti anche tossici» affermarono con forza i ricercatori. La stessa forza che oggi potrebbe portare a confermare, in un nuovo studio, la fine dell’emergenza ma non della crisi nella gestione dei rifiuti in Campania. Non si salva Salerno: a Campagna insisteva una discarica su un’area di circa 2000 metri quadri dove erano concentrati rifiuti di vario genere, alcuni dei quali sicuramente nocivi per la salute pubblica. Stessa solfa a Polla. Dunque sembra ormai certo il via libera per la realizzazione del termovalorizzatore a Salerno, sarebbe il terzo in Campania, che potrebbe consentire di dareuna svolta all’annoso problema proprio come già successo in città quali Mlano, Brescia o Pisa.

    Rispondi

Lascia un commento