L’urbanistica si è fermata a Eboli? Una lettura del Piano Strategico Comunale.

Manzione e l’urbanistica a Eboli. La certezza da parte degli attori, si contrappone alla rassegnazione da parte dei cittadini sempre più distanti.

Quando l’urbanistica si riduce a planotecnica, da un lato, e a materia di scambio dall’altro, non sono più i processi a costituire oggetto di osservazione e riflessione, ma, in termini pragmatici, il potenziale uso di essi.

Luigi Manzione

EBOLI – Il dibattito politico in Città, spesso rincorre processi che appartengono alla ordinarietà o all’emergenza, o affronta risposte parziali e disordinate, perché non si da il giusto rilievo a quelle che dovrebbero essere le linee guida dettate dagli Strumenti Urbanistici, vivendo una condizione di “ordinaria” precarietà, che nel momento in cui si interviene, gli stessi vengono percepiti dai cittadini come estranei, o addirittura subiti come prepotenze non rispondenti e in netto contrasto alle loro apsettative. L’Archietto Luigi Manzione dal suo osservatorio ed in base alle sue esperienze prfessionali prova a dare una sua lettura allo strumento Urbanistico vigente, ai percorsi che hanno portato alla sua redazione, fino alla sua applicazione, senza escludere critiche garbate e suggerimenti intelligenti, propri di chi conosce la materia, ma anche di chi nelle conoscenze mette anche quel fattore emozionale che fa la differenza.

di Luigi Manzione
Architetto

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Lo scenario recente

La questione urbanistica a Eboli sta assumendo connotati e proporzioni fuori dall’ordinario, e per questa ragione mi sembra utile aprire una riflessione sul tema. Nel 2005, l’amministrazione comunale appena insediata fece del piano comunale il proprio cavallo di battaglia, partendo dal presupposto che il piano regolatore generale (PRG) in vigore aveva dimostrato nei fatti non poche rigidità. Inoltre la legge urbanistica regionale del 2004 aveva introdotto lo strumento del piano urbanistico comunale (PUC). Il PRG si fondava sulla sequenza piano generale-piani particolareggiati, secondo un processo di pianificazione nel tempo. La sua attuazione era strettamente connessa alla elaborazione dei piani particolareggiati, in assenza dei quali il PRG restava un apparato normativo privo di vita e, per molti aspetti, inapplicabile. La verifica di efficacia del PRG doveva quindi necessariamente essere agganciata a quella dei piani particolareggiati, allora in corso di elaborazione dall’ufficio di piano del Comune. Individuati gli elementi di criticità, occorreva ricercare le modalità di correzione. La strada più semplice era quella di procedere ad un esame approfondito degli aspetti in discussione, anche mediante procedure partecipate con i cittadini, gli attori locali, gli stakeholders in senso ampio, per poi decidere dove operare le necessarie modifiche. In parallelo, si poteva potenziare (e non smantellare) l’ufficio di piano, puntando a redigere e approvare in tempi ragionevoli i piani particolareggiati. Tutto ciò a partire dalla semplice constatazione dell’importanza del fattore tempo nei processi di pianificazione: le situazioni e le dinamiche evolvono continuamente e uno strumento urbanistico, basato su un apparato analitico definito in un dato momento, risulterà inevitabilmente superato dalla realtà cinque o più anni dopo.

La direzione intrapresa nel 2005 fu invece un’altra: elaborare un nuovo piano urbanistico comunale, coinvolgendo l’università di Salerno a garanzia di scientificità. Il gruppo di lavoro ne impostò lo studio all’insegna di un “progetto di urbanistica partecipata”. L’intenzione era senz’altro lodevole, visto che – a mio avviso – il piano allora vigente costituiva uno strumento di riferimento per la disciplina urbanistica, fondato su un corpus analitico rigoroso, ma mostrava un punto debole sul terreno della partecipazione e del coinvolgimento effettivo della comunità nel processo di elaborazione. In altri termini, un piano culturalmente avanzato, ma la cui scelte non erano del tutto condivise dalla comunità. Detto questo, possiamo discutere le modalità di partecipazione alle decisioni del PUC, ovvero del piano strategico comunale (PSC) che, a tutt’oggi, è il solo elaborato che manifesti concretamente le intenzioni pianificatorie dal 2005. Dalla lettura dei verbali delle sedute di concertazione, non mi pare infatti che il confronto sia stato particolarmente intenso e significativo, né che abbia prodotto esiti conseguenti sulle scelte.

Mi soffermerò in seguito sul PSC. Ritengo adesso interessante notare che dal 2005 la pianificazione a Eboli ha sofferto di una sorta di sdoppiamento: da un lato, si costruiva un nuovo piano; dall’altro si continuavano a redigere gli strumenti attuativi – ad oggi, se non sbaglio, dieci dei venti previsti dal PRG – secondo il vecchio piano, con le immaginabili conseguenze in termini di coerenza delle trasformazioni urbanistiche. Questo doppio regime, di fatto, ha condotto a teorizzare la possibilità – del tutto irreale (o surreale) – di pianificare per varianti. Di fatto, pianificare per varianti è stata, almeno finora, e lo sarà verosimilmente fino all’approvazione del PUC, la sola strategia agibile in queste condizioni di incertezza strutturale. Ma, più che di urbanistica, si tratta di (stra)ordinaria amministrazione e conflitto permanente. A ciò si può aggiungere il paradosso, instaurato all’inizio della elaborazione del nuovo piano, di dichiarare superato il PRG, individuando subito strategie urbanistiche alternative, mentre nelle more della elaborazione del PUC si continuavano (e si continuano) a redigere i “vecchi” piani attuativi (a riprova del fatto che, senza strumenti di attuazione, il PRG era una specie di scatola vuota).

L’elaborazione di un nuovo piano comunale sarebbe stata più credibile se supportata da un cronoprogramma preciso. Invece i tempi sono stati talmente dilatati che, dopo cinque anni, ci si ritrova ancora a discutere del futuro della città sulla base di uno schema strategico (il PSC) che, a mio parere, non chiarisce le criticità, né espone gli scenari a venire. Ci si può chiedere perché tanto tempo per passare dal piano strategico al piano urbanistico vero e proprio e, soprattutto, se questo ritardo non infici in sostanza le strategie stesse che erano state abbozzate tra agosto 2007 (data di affidamento dell’incarico di consulenza al dipartimento di ingegneria civile dell’università di Salerno) e marzo 2009 (approvazione del PSC). Quando l’assetto del territorio è lasciato nel limbo dell’incertezza, tutto e niente diviene indifferentemente possibile. La certezza e la norma sono sostituite dall’indecisione e dall’arbitrario. Si aprono vasti spazi alla contrattazione spicciola, a ipoteche contingenti sul futuro, a scambi più o meno proficui tra soggetti diversi, confondendo spesso i domini di competenza, i temi, le poste in gioco, con buona pace di qualsiasi processo partecipativo che sia veramente tale. Quando l’urbanistica si riduce a planotecnica, da un lato, e a materia di scambio (in senso ampio) dall’altro, non sono più i processi a costituire oggetto di osservazione e riflessione, ma – in termini pragmatici – il potenziale uso di essi. Nel frattempo, ripeto, le dinamiche in atto sul territorio seguono le proprie traiettorie, così che i saperi esperti e i saperi comuni che vi hanno a che fare accumulano ritardo su ritardo. Tutto ciò ha un costo pesante per la collettività. E la comunità paga il conto…

Ex Mattatoio Eboli

Questo è, ai miei occhi, lo scenario nel quale si dibatte l’urbanistica a Eboli. Da un lato, c’è una certa “effervescenza” da parte degli attori, a diverso titolo, che si contrappone ormai alla rassegnazione da parte dei cittadini che osservano le cose da una distanza sempre maggiore (come cose che li riguardano poco, in fondo); dall’altro, c’è questo ritardo – nelle elaborazioni e nelle decisioni – quasi irreale. Da cittadino, mi chiedo se abbia una logica dover attendere tanti anni per avere uno strumento urbanistico comunale che metta fine al regime di incertezza e che dia respiro e fiducia alla città (al di là di recenti proposte, anch’esse surreali, come quella di nuovi rapporti mc/mq in zona satura, surreale come tutte le ipotesi specifiche che prescindono da valutazioni d’insieme). Noto inoltre che al pianificare per varianti si è accompagnato il rilancio dello strumento del project financing. Bene, ho tuttavia l’impressione che alcune trasformazioni prefigurate in certi progetti di finanza abbiano poco a che vedere con l’interesse generale. Questo strumento si basa evidentemente su un equilibrio delicato tra pubblico e privato e, a mio modo di vedere, occorre massimizzare i vantaggi per l’uno e per l’altro (altrimenti non c’è ragione di ricorrervi, se non la prospettiva di inevitabili, avvenuti fallimenti). Quando leggo – l’ho appreso dalla stampa e non ho consultato gli atti, quindi potrei sbagliarmi – del progetto sull’ex mattattoio, mi chiedo qual è l’utilità, nel contesto attuale, di 100 box (a S. Giovanni?), una piazza (che verosimilmente non aggregherà mai persone, se non anonimi consumatori), un ristorante con terrazza panoramica (sulla entrata alla città?), ossia un manufatto di 26 metri di altezza (circa 8 piani e mezzo). Poi leggo anche di una palazzina per i VV.UU. che, suppongo, rappresenti ciò che il Comune ricava dall’operazione di cessione al privato, ad un prezzo pare irrisorio, di un’area che io ritengo strategica – ma per usi del tutto diversi – per la città. In questo caso, come in altri (vedi area ex Pezzullo), si è fatta la scelta di procedere per project financing, ma sulle aree veramente strategiche della città a mio avviso occorrerebbe invece una consultazione aperta – un concorso di idee o di progettazione – con una giuria esterna e qualificata, a cui poi segua realmente un incarico e non solo una cerimonia di premiazione da far comparire sul giornale locale. Solo tale procedura permette alla pubblica committenza di avvalersi a costo quasi zero della migliore qualità delle proposte, non solo di progetto, ma anche di attuazione e gestione delle opere, con il coinvolgimento di capitali privati. Diversamente, l’esperienza dimostra, anche a Eboli, che quando il progetto è affidato solo alle imprese, nella procedura classica del project financing, nella stragrande maggioranza dei casi la qualità sarà carente o inesistente.

Una lettura del piano

Vezio de Lucia

Partendo dallo scenario sopra tratteggiato, quelle che seguono sono delle riflessioni sul processo di elaborazione del PSC e sulla sua impalcatura teorica. D’altronde, su un piano di cui sussiste oggi unicamente la parte strategica è possibile discutere in termini disciplinari solo di aspetti concettuali. Tra la fine degli anni ’90 e l’inizio del 2000, Eboli è stata – caso forse unico tra i piccoli centri del Mezzogiorno – un laboratorio di sperimentazione urbanistica, che ha permesso alla città di dotarsi di un PRG di notevole spessore, elaborato da un ufficio di piano coordinato da Vezio De Lucia e approvato nel 2003. Con una forte attenzione alla difesa delle risorse (suolo agricolo, fascia costiera, fiume, colline, centro storico), esso si proponeva in estrema sintesi, secondo un approccio sostenibile, di “rigenerare ciò che è deteriorato, riqualificare ciò che è saturo, trasformare ciò che è incompiuto, connotare ciò che è indefinito”. Come dicevo in apertura, nel 2005 l’amministrazione comunale appena insediata apre una discussione (già iniziata in campagna elettorale) sullo strumento urbanistico, ritenuto eccessivamente vincolante, inadatto a permettere le legittime trasformazioni nelle zone edificabili, affetto da disfunzioni nei meccanismi di perequazione e da limiti nel prefigurare gli assetti del territorio agricolo. Io stesso all’epoca, come consulente del Comune, avevo avuto modo di confrontarmi con situazioni specifiche che richiedevano un intervento correttivo, che si sarebbe potuto secondo me attuare mediante una variante puntuale al PRG (prevedendo il contestuale adeguamento alla normativa sopravvenuta), mantenendo però ferma l’impalcatura essenziale. Si decise invece di procedere ad una radicale revisione del PRG, a distanza di meno di tre anni dalla sua approvazione, con la messa a punto di indirizzi di pianificazione urbanistica, sulla base dei quali approdare poi alla definizione di un PSC e, infine, alla adozione del PUC. Le note seguenti costituiscono una lettura delle strategie urbanistiche e territoriali nel periodo considerato, alla luce delle intenzioni manifestate nel PSC, approvato nel 2009, che nelle intenzioni dovrebbe condurre Eboli a dotarsi di un piano di quarta generazione. Cercherò di ripercorrere il processo di pianificazione e di situarne gli svolgimenti nell’intrico dei discorsi e delle pratiche in cui tali strategie si inscrivono.

Una visione condivisa del futuro della città?

Quali sono, all’origine della revisione delle strategie urbanistiche a Eboli, gli elementi invocati, a supporto della scelta di elaborare un nuovo piano? Sono essenzialmente di tre tipi: normativo-procedurali, processuali, strategici. Nel PSC si richiama inizialmente la necessità di adeguare la strumentazione urbanistica comunale al mutato quadro normativo, in particolare alla legge regionale n. 16/2004 e agli strumenti sovraordinati di pianificazione (piano territoriale di coordinamento provinciale, piano territoriale regionale, etc.). La seconda motivazione richiama la divaricazione tra le previsioni del PRG e le azioni intraprese dall’amministrazione comunale e dall’imprenditoria privata, con il ricorso a procedure in variante. La terza mette in gioco le politiche urbanistiche comunali, le strategie e i relativi strumenti di attuazione.

Nelle formulazioni iniziali, il piano in corso di elaborazione è pensato “in continuità amministrativa” con il PRG del 2003, “da rimodulare, anche consistentemente”. Tuttavia, con un evidente cambiamento del punto di vista, il piano viene definito negli indirizzi successivamente elaborati come uno strumento “del tutto diverso dal prg vigente”, in quanto derivante dalle mutate normative regionali e nazionali e dalle trasformazioni in atto nei processi che coinvolgono il territorio comunale. Stranamente, però, nel dettaglio tali processi – relativi al periodo 2003-2005 – non vengono indicati, sebbene dovrebbero costituire il nucleo (e il fondamento) dell’analisi urbanistica. Non si rileva, in particolare, nel PSC un aggiornamento del quadro conoscitivo da cui il PRG era stato solidamemte supportato, aggiornamento che permetta di capire nello specifico quali siano le mutate dinamiche socio-economiche, demografiche, occupazionali, etc. Esiste quindi una contraddizione nel discorso alla base del nuovo piano in formazione: da un lato, si afferma che esso è “del tutto diverso” dal PRG poiché risultano mutati sia il quadro normativo, sia le condizioni fisiche e funzionali del territorio; dall’altro, si sostiene che le ragioni di un piano comunale “del tutto diverso” risiedono non solo nelle mutate condizioni al contorno, ma anche nelle politiche urbanistiche. Risiedono cioè nella necessità di far fronte ad una “evoluta domanda sociale”. Stante la mia perplessità di fronte alla possibilità di una radicale evoluzione della domanda sociale nell’arco di circa un triennio, mi aspetterei di vedere come tale evoluzione sia stata captata e registrata, sulla base di quali indicatori, anche in comparazione con quelli su cui era stata costruita la base analitica del PRG.

Di tutto ciò non è dato trovare traccia nel PSC (se si escludono i dati relativi al trasporto collettivo, agli edifici di pregio e ai monumenti). Nessun rilevamento diretto, ma soltanto qualche generico riferimento al censimento Istat 2001 (che nulla dice quindi del periodo “critico” 2003-2005) e l’articolazione delle attività economiche al 2007 su base dati della locale Camera di commercio. Nessun cenno, nello specifico, alle dinamiche e ai processi sopravvenuti e, di conseguenza, nessuna indicazione su come leggerli e interpretarli in vista della elaborazione di strategie aggiornate. Insomma, tra le intenzioni e le previsioni c’è un salto logico che rende difficile capire come e dove si fondano le nuove politiche urbanistiche. Le quali – com’è ovvio – si costruiscono, ordinariamente, a partire dai risultati dell’analisi delle condizioni di fatto. Se questi risultati sono assenti o carenti, la prefigurazione degli scenari disegnati nel PSC appare un’operazione per certi aspetti autoreferenziale, la quale si produce peraltro in un ribaltamento del percorso analisi-progetto. Un adeguamento del PRG alle nuove normative sarebbe stato a mio avviso comunque possibile, e ciò, ripeto, avrebbe potuto essere l’occasione per rivedere e correggere le criticità indubbiamente emerse nella sua attuazione nel periodo 2003-2005. Ora, a fronte della pur richiamata necessità di una “costruzione collettiva del piano”, e nel contesto a cui ho accennato, la “evoluta domanda sociale”, evocata nel discorso fondativo del PSC, non è stata in realtà delineata a priori? Essa non ha preso corpo quale proiezione di una idea di città largamente funzionale alla formazione del consenso e alla creazione/mantenimento di equilibri del potere locale (facendo leva sull’idea, diffusa nel Mezzogiorno, del territorio come merce di scambio politico)? Non sono stati messi a punto solo in seguito gli strumenti per la concreta traduzione di quella idea di città nelle politiche urbanistiche e territoriali?

Quanto detto si ripropone quando si affronta il tema “variante”, peraltro di stretta attualità. Sono le varianti che, tra l’altro, avrebbero invalidato – secondo quanto si afferma nel PSC – l’efficacia delle previsioni e prescrizioni del PRG, permettendo interventi puntuali, di rilevante peso urbanistico. Per superare lo stato delle cose, si sottolinea nel PSC la necessità di definire un quadro strategico unitario di assetto territoriale, evitando di pianificare per varianti. Proposito senza dubbio condivisibile, che suscita però non poche perplessità riguardo alla modalità scelta, di fatto, per superare quella difficoltà: formalizzare le varianti stesse, anche in anticipo rispetto alla formazione del PUC. Mi chiedo se ciò non significa negare la stessa logica puntuale della variante. La variante viene prima stigmatizzata (quando il pianificatore delinea la pars destruens del suo discorso); passando senza mediazioni sul terreno della operatività, viene poi elevata (nella successiva pars construens) da eccezione a regola (se non a sistema), anticipando le diverse varianti che si rendano necessarie prima dell’approvazione del PSC, inquadrandole “coerentemente” in quella sede e, infine, disciplinandole nel PUC. In questo percorso, quali sono gli indirizzi del PSC? Quali le linee di una visione condivisa del futuro della città? Assumendo la partecipazione come “metodo del processo di pianificazione”, nel PSC la grande dimensione del territorio comunale viene posta alla base di una visione multipolare della organizzazione territoriale futura, una città policentrica e multifunzionale articolata secondo tre punti essenziali:
1) la città consolidata della integrazione funzionale;
2) la città lineare della produzione e del commercio;
3) la città costiera e dell’industria turistica.

Si aggiunge a queste una quarta (anti)-polarità: il territorio della produzione agricola. Mi chiedo, tra parentesi, se il prefisso “anti” sia qui un lapsus o una qualificazione esplicita (l’agricoltura come un’entità in opposizione nel quadro delle scelte di pianificazione).

La città consolidata

La città consolidata, di notevole estensione, comprende il centro contemporaneo, il centro storico e il centro antico; le aree di sviluppo a completamento insediativo; l’area per gli insediamenti produttivi; le colline. Per il centro contemporaneo, il PSC prevede la manutenzione con mantenimento del carico insediativo, specificando che se ne escludono incrementi, mentre si persegue una ulteriore dotazione di spazi e attrezzature di uso pubblico. L’intento è coerente con la definizione di aree “sature”, ma incoerente con la possibilità, ammessa all’inizio dello studio del nuovo piano comunale, di effettuare nella sottozona satura trasformazioni fisiche di ampliamento (ai fini del miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie e nel limite di 50 metri quadrati). Possibilità introdotta con una variante alle norme tecniche del PRG, e approvata prima ancora della definizione dei nuovi indirizzi di pianificazione urbanistica. Difficile allora sostenere che il carico insediativo nella sottozona satura sia stato mantenuto. A rinforzare il tutto intervengono le ulteriori possibilità previste, in seguito alla approvazione del PSC, per operazioni di ristrutturazione edilizia e urbanistica. L’insieme di tali indicazioni lascia intravedere, in sostanza, uno scenario per il centro contemporaneo che, qualora confermato nel PUC, delineerebbe una situazione sostanzialmente diversa rispetto non solo al PRG, ma anche agli orientamenti del PSC. Sarebbe così compromesso un altro elemento di coerenza del piano, ripeto, sia rispetto al PRG, sia – circostanza per certi versi inquietante – rispetto allo stesso piano strutturale.

La città lineare

Per la seconda polarità, il PSC adotta l’espressione città lineare, modello che rimanda ad assetti antagonistici rispetto alla forma classica della città (i cui riferimenti spaziano dall’ingegnere spagnolo dell’Ottocento Arturo Soria y Mata ai “disurbanisti” sovietici degli anni 1920-30, fino alle più recenti teorie della dispersione territoriale). Ci si è tuttavia preoccupati di precisare, negli indirizzi del PSC, che si tratta di “un modello insediativo diverso dalla edificazione a nastro lungo strada”. Modello giustamente da contrastare per la lievitazione innaturale dei costi di urbanizzazione (e per il fatto, aggiungerei, che innesca – com’è noto – un meccanismo perverso che addebita i costi al pubblico e i benefici a pochi privati). Ciò che, secondo il PSC, farebbe la differenza rispetto alla edificazione a nastro è che le strategie per la città lineare si costruiscono a partire dalle esistenti aggregazioni edilizie lungo i nastri viari. Questa peculiarità, tuttavia, non mi pare risolva il problema, ma lo differisce, dal momento che occorrerà comunque interconnettere i nuclei insediativi esistenti, di cui si consentirebbe anche un certo incremento della capacità insediativa. Si può essere, per ragioni diverse, favorevoli o contrari agli insediamenti lungo i corridoi produttivo-commerciali che strutturano la rete della espansione caotica (e a tratti abusiva) di Eboli verso la costa, ma il nodo resta eminentemente economico (e la soluzione sostanzialmente politica): si tratta di sapere chi si accolla i costi della infrastrutturazione dei corridoi verso il mare, di quelli esistenti e dei futuri incrementi. La dispersione insediativa non può essere, a mio parere, pretesto per esercizi di moralismo, ma non si può fare a meno di avere come riferimento la collettività (e le sue tasche) nell’analisi costi-benefici di certe scelte. A questo scenario futuro il PSC attribuisce la capacità di evitare l’”effetto periferia”. L’espansione lineare lungo le strade del commercio (su cui si è ormai accumulata una consistente letteratura) – ossia la forma attuale che, di fatto, regge l’urbanizzazione proliferante al di là della città consolidata – non è più periferia nel senso tradizionale, e la posizione del PSC sembra voler teorizzare un modello che di fatto qui è già una realtà: lo sprawl, la diffusione individualistica e anomica. Quali sono allora le differenze tra un ipotetico processo di razionalizzazione che il PUC dovrebbe attuare e le dinamiche spontanee in atto, le quali hanno avuto luogo in assenza di qualsiasi controllo (normativo e culturale)?

Tra gli indirizzi teorici assunti dal PSC si citano la copianificazione e la competizione collaborativa. A questo proposito, non è inutile esaminare la lettura che il PSC propone del rapporto con i principali centri contermini. Sullo sfondo del paradigma ormai classico della competizione territoriale, vi si sostiene che Eboli dovrebbe potenziare il carattere di insediamento funzionalmente forte, in modo da attrarre operatori e capitali dagli altri centri. Ma questa logica di competizione sostanzialmente economicistica non si dovrebbe confrontare con una maniera diversamente consapevole di costruire il proprio ruolo in un ambito di area vasta? Più che in termini di competizione, non sarebbe opportuno pensare la propria identità in termini di differenziazione, di capacità di fare rete e, nel contempo, di valorizzare e mettere a frutto le proprie vocazioni e storie? Competere con un’altra municipalità – nel caso, Battipaglia –, sul terreno delle potenzialità proprie dell’altra piuttosto che delle proprie potenzialità, può essere un processo da attuare nell’orizzonte breve della pianificazione urbanistica (ossia del ciclo temporale del piano)? E qualora lo fosse, sussistono i presupposti concreti per tentarlo?

La città costiera

La terza polarità del PSC comprende il territorio a valle della piana del Sele, fino alla fascia costiera. Per essa si prevede una preminente funzione turistica, prefigurando un nuovo modello “industriale e sostenibile”: potenziamento del sistema infrastrutturale, riqualificazione della fascia costiera, destagionalizzazione dell’offerta turistica. Il PSC introduce l’idea della fascia costiera come “pezzo di città”, da costruire anche mediante il recupero e la riqualificazione di insediamenti abusivi esistenti. La proiezione di Eboli verso la costa non è un’invenzione recente, ma una ipotesi risalente alla prima metà del Novecento. Con altri intenti – essenzialmente occupazionali e di riscatto sociale, nella prospettiva della riforma agraria – ne parlava già Mario Garuglieri, confinato politico comunista, all’inizio degli anni ’40 (“Eboli al mare”). In quella ipotesi, l’insediamento contemporaneo si stabiliva nella piana, mentre l’antico tessuto urbano (corrispondente all’attuale centro storico) diventava il centro amministrativo e culturale della nuova città. Poi c’è stata la guerra, la ricostruzione, il terremoto (e, da ultimo, la globalizzazione). Nel ripensare oggi a distanza di settanta anni un nuovo “pezzo di città” sul mare, non si può fare a meno di chiedersi se si tratta di una vocazione realmente condivisa. Una scelta così rilevante di politica territoriale non dovrebbe derivare in primo luogo dalla identificazione di questa vocazione nella storia della città e dei suoi abitanti? Diversamente, si corre il rischio di ricadere in una ipotesi artificiale, in un disegno dai contorni indefiniti. La città e il territorio possiedono una “biografia”, stratificata e consolidata, che ne struttura l’identità, contenendo in maniera più o meno implicita le tracce e le direzioni dello sviluppo urbano. È in quella biografia che bisognerebbe ricercare le ragioni e le virtualità della città futura, non in proiezioni largamente illusorie.

Il territorio agricolo

Come si è detto, il PRG poneva una profonda attenzione alla salvaguardia e alla valorizzazione compatibile del suolo agricolo. Per questa che costituisce l’antipolarità del PSC viene prevista, in accordo con gli indirizzi dello stesso PRG, la sottrazione definitiva ad usi impropri, non connessi alla funzione agricola, sulla base di un “moderno concetto di ruralità”, che deve tradursi strategicamente nella riqualificazione dei nuclei storici e della edilizia rurale, nella limitazione del consumo di suolo, nella regolamentazione precisa delle dinamiche insediative. Ma questa impostazione, senza dubbio rigorosa, come potrà convivere nel PUC con la visione parallela della “città lineare della produzione e del commercio”? E, da un punto di vista più pragmatico, come potrà interagire (e sopravvivere) con le premialità e gli ampliamenti che le normative locali – approvate mediante ampio ricorso alla variante – e nazionali (v. il “piano casa”) introducono anche in zona agricola? Questo e altri interrogativi saranno presumibilmente alla base della riflessione sulle strategie urbanistiche e territoriali dei prossimi mesi. Le risposte potranno confermare o contraddire il ruolo di Eboli come laboratorio di sperimentazione disciplinare, ma affinché si trovino risposte è necessaria un’accelerazione nei tempi e nei modi della elaborazione degli strumenti urbanistici, prima che il ritardo accumulato invalidi irreparabilmente qualsiasi prospettiva di pianificazione comunale.

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Luigi Manzione (Eboli, 1964), Architetto, dottore di ricerca dell’università di Parigi VIII, titolare di master-certificato di studi approfonditi “Città Orientali-Metropoli d’Asia Pacifica” e di master-diploma di studi approfonditi “Progetto architettonico e urbano” presso l’Istituto francese di urbanistica (Parigi). È stato borsista di ricerca presso il Ministero francese della cultura e della comunicazione/Direction de l’architecture et du patrimoine. Abilitato all’insegnamento di urbanistica nelle università francesi (professore associato), ha insegnato alla facoltà di architettura di Paris-La Villette (cotitolare del corso Ville et banlieue). Ha svolto anche attività di consulente per il comune di Eboli dal 2001 al 2005. Esercita attualmente attività professionale in architettura e urbanistica (LAMstudio-architettura&ingegneria), partecipando a concorsi nazionali e internazionali con un team pluridisciplinare. Parallelamente svolge attività di ricerca, interessandosi in particolare di progettazione urbana; di storia e teoria dell’urbanistica; delle forme insediative e delle trasformazioni della periferia europea contemporanea. Ha pubblicato su riviste e volumi collettivi in Italia e all’estero. Suoi scritti recenti sono apparsi, tra l’altro, sulle riviste Urbanistica, Espaces et sociétés, Urbanisme, Lieux communs, Archphoto 2.0 (di cui è membro del comitato editoriale). Nel 2012 ha pubblicato il saggio “Paris Rive Gauche. L’espace des infrastructures entre réinvention et refoulement”, in D. Rouillard (a cura di), L’infraville, Parigi, Archibooks. Ha in preparazione il volume L’urbanisme comme science. La France et l’Italie dans l’entre deux-guerres per le edizioni MētisPresses di Ginevra.

Eboli, 24 gennaio

7 commenti su “L’urbanistica si è fermata a Eboli? Una lettura del Piano Strategico Comunale.”

  1. L’architetto ha fatto un analisi superba, dell’ attuale situazione urbanistica ebolitana, proponendo però, una tesi edulcorata del piano De Lucia. Quel P.R.G. fu adottato nel disprezzo più assoluto nell’ambito della valutazione delle osservazioni al piano. Molte di quelle osservazioni che la stessa commissione urbanistica, voluta dal Sindaco Rosania, riteneva meritevoli di accoglimento e che in modo becero una maggioranza consiliare rigettava sconsideratamente. Quel P.R.G.pur tentando di salvaguardare il territorio, ha reso vano questo obiettivo perchè le norme tecniche erano talmente capziose, che hanno dato l’alibi a Melchionda di stravolgere tutti i comparti edificatori e le aree in zona ed di pianura, infatti ci ritroviamo il tessuto agricolo cosparso di una miriade di pertinenze agricole.

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  2. Il piano De Lucia e’stata una produzione ideologica di una visione politica che aveva la presunzione di “proteggere” il territorio da probabili speculazioni, almeno questa era la motivazione ufficiale, l’altra era quella di voler controllare. entrambe le motivazioni hanno ingessato il paese e mortificato lo sviluppo, tra l’altro indirizzato piu’ che a conquistare o riconquistare il territorio, precedentemente ingessato da un’altra stagione politica che invece preferiva controllare alla spicciola, a imporre una visione globalizzante da impedire l’iniziativa dei singoli.
    La pretesa di protezione ha finito per eccesso di vietare ogni cosa, nel senso che si indirizzava prevalentemente al: e’ vietato; non e’ consentito e via dicendo. manifestando una cultura negazionista.
    La pretesa del controllo, invece si denota dal momento in cui si individuavano ambiti esageratamente grandi, difficili da gestire e impossibili da attuare, manifestando anche in questa impostazione una visione centralista e assolutista.
    Entrambe hanno evidenziato una carenza di prospettive non incontrando il futuro oltre che larealta’ che correva da tutt’altra parte.
    La nostra citta’ con l’epitaffio, la casarsa, s. cecilia, cioffi ed altre realta’ abitative avrebbero incoraggiato al policentrismo che doveva correre in senso longitudinale per agganciarsi alle sue contrade e avvicinarle con le comunicazioni.
    La presunzione e l’arroganza di quella classe politica ha mortificato ogni sviluppo e ora ci troviamo a piangere sul latte versato. E chi paga? nessuno. Intanto la Citta’ vive la sua continua agonia.
    Per i dsnni causati andrebbero fucilati, naturalmente noon in maniera letterale, ma almeno condannati politicamente.
    Le intenzioni? al momento npn sono piu’ intenzioni ma atti non condovisi, ma che hanno dato il pretesto a Melchionda che della citta’ se ne frega di agire per varianti continuando lo scempio urbanistico.

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  3. Bravo Luigi! Finalmente si discute in modo serio di questioni nodali per la città e il suo territorio. Concordo pienamente con la tua analisi e le tue riflessioni. Per fortuna in questo paese c’è ancora qualcuno disposto a non fare da grancassa a generici luoghi comuni, (gli ideologismi non stanno da una sola parte), ma a utilizzare gli strumenti dell’analisi critica per capire i processi e valutare le proposte. Si vede che buon sangue non mente…

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  4. Ritorno sulla discussione che si sta aprendo, e che spero continui, anzitutto per ringraziare pubblicamente Massimo Del Mese per aver ospitato questo mio contributo sull’urbanistica a Eboli. Ringrazio anche coloro che sono intervenuti, in particolare Vito Pindozzi per le parole di stima (reciproca) che ha voluto indirizzarmi.
    Un po’ mi sorprende tuttavia che finora il tema dei commenti sia il piano De Lucia e non il PUC in gestazione, oggetto principale della mia nota. Si è parlato di ideologia, ma ho l’impressione che si stia giocando sul piano ideologico da fronti diversi. Riguardo al PRG, ritengo si tratti di uno strumento culturalmente avanzato – nel contesto e nell’epoca in cui è stato elaborato – ma che ha sofferto di un deficit di partecipazione e di comunicazione. Per usare il gergo degli urbanisti, quel piano ha mostrato dei limiti sul terreno della sua “costruzione sociale”. Sono ugualmente convinto che non si siano date le condizioni per ripensare la sua attuazione sul versante della condivisione e della partecipazione civica, visto che dopo soli tre anni dall’approvazione è stato dismesso. Per par condicio, devo anche dire che il PUC in fieri non brilla certo per essere un esperimento di “intelligenza collettiva” (sempre per usare un’espressione gergale, queta volta non degli urbanisti)… Continuo a pensare che cinque anni fa era ancora possibile correggerlo. Oggi le condizioni sono radicalmente cambiate; dieci anni ci separano dalla elaborazione del PRG e sono stati, come tutti sanno, anni di mutazioni accelerate in ogni dominio, per cui sarebbe irrealistico valutarlo ora negli stessi termini. Altrettanto irrealistica, se non suicida, è la prospettiva di lasciar trascorrere altro tempo prima di adottare un nuovo strumento urbanistico, che nasce comunque già “vecchio” per le ragioni che ho cercato di esporre.
    Ricorre inoltre la convinzione che il PRG abbia ingessato lo sviluppo di Eboli, a causa della sua impostazione vincolistica. Punto di vista rispettabile, per certi aspetti anche condivisibile (laddove, nello specifico, io stesso ho sempre ritenuto che andasse modificato), ma che andrebbe dimostrato con dati certi. Altrimenti si ricade, anche qui, nell’ideologia o nella ripetizione di stereotipi. A me sembra che un ruolo altrettanto rilevante nel non riuscire ad agganciare concretamente prospettive di sviluppo lo abbia avuto anche il tessuto imprenditoriale locale, quando ha creduto di poter fare affidamento sul pubblico invece di assumersi in proprio i rischi, ossia i costi e i benefici, come è naturale che sia per chi appunto “intraprende”.
    Sono d’accordo sull’ipotesi di una organizzazione policentrica che, peraltro, è (o forse era) implicita nella struttura urbana stessa. In quella direzione occorrerebbe operare per ricucire, riorganizzare ed eventualmente pensare anche in termini di crescita. Tenendo però presente che il policentrismo è credibile se pensato in una dimensione territoriale conforme, secondo direzioni consolidate, e non lungo proiezioni illusorie.

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  5. Sono uno studente di Ingegneria Edile – Architettura all’Università di Salerno e avrei una domanda da porre all’architetto Manzione: quali erano le pratiche perequative previste dal piano De Lucia e quali invece saranno quelle del nuovo puc.
    Grazie per la disponibilità e per l’esauriente quadro che ha fornito con il suo contributo.

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  6. Ringrazio Carlo Vece per il commento e la domanda.
    Il PRG non è un piano esplicitamente perequativo; il termine “perequazione” non vi appare mai, anche se alcune anticipazioni si possono intravedere (nella formazione dei piani urbanistici attuativi/PUA). E non è un caso, se si considera che di perequazione urbanistica si comincia a parlare in Italia solo nel 1995 (21° congresso INU di Bologna) e che, in ambito regionale, essa viene introdotta dalla legge 16/2004. Nella riflessione disciplinare, la perequazione caratterizza il passaggio dal PRG classicamente inteso al PUC.
    Il PRG di Eboli rappresenta una visione dell’urbanistica (propria di alcuni autori come De Lucia e Salzano) attenta alla dimensione del pubblico e ai valori prescrittivi del piano. Il discorso perequazione non si sviluppa all’interno di questa tendenza, ma piuttosto in quella della cosiddetta “urbanistica riformista” (Campos Venuti, Oliva), maggiormente orientata verso un approccio negoziale.
    La legge urbanistica regionale 16/2004 introduce la perequazione come metodo alternativo, o complementare, alla espropriazione intesa nel senso tradizionale. Come tale essa viene accolta dal PSC di Eboli (non possiamo parlare del PUC, ancora in gestazione). In termini generali, la perequazione rappresenta ciò che conferisce agli interventi edilizi una propria legittimità (ed equità) – si parla qui di “autoportanza” – senza ricorrere agli standard (o dichiaratamente in opposizione ad una logica di standard).
    Una parte del PSC è dedicata alla perequazione urbanistica: si introduce la definizione, se ne traccia una breve storia, si richiama la legge 16/2004 e, in ultimo, se ne illustra in maniera molto succinta l’applicazione al caso di Eboli, affermando che, per evitare le contraddizioni in cui si sarebbe incorso nell’applicazione dei piani attuativi (PUA), la perequazione va applicata esclusivamente su suoli liberi (o trasformati in maniera precaria) o su suoli dismessi, e non su aree edificate e abitate. Di fatto, non mi pare però che siano emerse finora indicazioni concrete sul terreno operativo.

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