Intervista a Del Mese (Arup): Nuove frontiere tra progetto e metodo

Spesso è più facile intervenire quando parti da zero come a Shangai, ma non sempre è così.

L’estetica non è un monopolio dell’architetto o di una particolare classe, così come, il metodo non è in contrasto con la forma o con lo stile.

Gabriele Del Mese

FISCIANO – SA – Dalla Residenza Universitaria – Si propone questa intervista dell’Ing. Gabriele del Mese fondatore della Hove Arup Italia, a seguito di una serie di lezioni tenute presso la Facoltà di Ingegneria di Fisciano, fortemente volute dal Professor Enrico Sicignano e dal Preside di facoltà Prof. Vito Cardone.

Il ciclo di conferenze molto seguito ed apprezzato dagli studenti si è basato sulle esperienze e i percorsi progettuali di alcune opere realizzate in tutto il mondo dallo Studio Arup. Esperienze che sono la prova provata che le discipline non danno il meglio di se se non riescono a convivere e ad operare insieme e l’Ing. Del Mese è uno dei fautori entusiasti della multidisciplinarità.

Quindi Idea, progetto, metodo, forma, multidisciplinarità, tutti ingredienti che egli indica per il migliore svolgimento di una missione a cui i giovani, soprattutto loro devono dedicarsi. Sulla base di questi elementari concetti l’Ing. Gabriele Del Mese ha rilasciato la seguente intervista per la rivista dell’Ordine degli Architetti di Salerno.

– Alla base di ogni processo progettuale lei pone il metodo, un modus operandi volto al perseguimento della qualità del risultato finale: l’opera. E’ importante riscoprirlo oggi in architettura, soprattutto in contrapposizione alla cifra stilistica, la tendenza ad apparire più che strutturarsi per risolvere una funzione utile alla collettività?

GDM – Il metodo non è in contrasto con la forma o con lo stile. Il metodo dovrebbe essere insito nel modo d’agire dell’homo sapiens. C’è un metodo per fare le forme cubiche, e sappiamo quanta infinita bellezza ci sia nel cubo, la storia delle costruzioni ce lo insegna, e c’è un metodo per realizzare i progetti più complessi con forme irregolari.

Si tratta di un approccio filosofico, non una giustapposizione rigida e schematica di passi. E’ enormemente benefico per la produzione e per la qualità, qualunque sia lo stile che si persegue, organizzarsi, crearsi una metodologia con obiettivi particolari da perseguire in un certo modo ed entro tempi certi.

Alla fine, dobbiamo sempre avere come riferimento l’eccellenza professionale e dobbiamo tener sempre presente che, quando pensiamo a  qualcosa, lo pensiamo perché ci è stato chiesto da un cliente, dalla comunità che ha bisogno di quel qualcosa e quindi, immediatamente subentra il fatto che bisogna strutturarsi mentalmente per raggiungere l’obiettivo e, non potendo il singolo sopperire alle molteplici necessità del committente, ha bisogno di circondarsi di “compagni d’avventura”, che la pensino allo stesso modo e che condividano un modo di procedere, per rendere migliore il risultato. In questo consiste, in effetti, il metodo.

-Paradossalmente, è possibile parlare oggi, in taluni casi, di committenza sbagliata? Cioè, riferendoci in particolare alla committenza pubblica, si cerca quell’architetto di moda per ottenere quel tipo di impatto visivo…

GDM – Qualche volta c’è dell’esasperato nella ricerca di particolari progettisti. Tuttavia, in generale, io ricordo che fin dall’inizio della professione in Arup, si sentiva dire una frase interessante come questa: “good architecture sells well“, cioè: la buona architettura si vende bene.

In effetti, la buona architettura può essere molto commerciabile, è ‘usata’ con piacere dalla comunità, è desiderata. E’ inutile fare una piazza particolare dove non ci va nessuno. Io sono stato coinvolto in progetti di sviluppo urbano di notevoli dimensioni in cui degli angolini, studiati in modo particolare, sono diventati punti naturali di aggregazione dei cittadini mentre altri luoghi, per quanto magnificenti, sono pochissimo usati.

Spesso mi son chiesto il perché: i materiali sono gli stessi, sono buoni spazi entrambi però uno è migliore dell’altro. Ma è migliore perché? Perché l’architetto ha toccato un filone magico nella disposizione urbana di una piazza piuttosto che di un’altra. Due architetti diversi, uno vi riesce e l’altro no.

Che le committenze strumentalizzino l’architettura non è un fatto nuovo: è sempre stato così. Accade dal tempo dei faraoni, dal tempo dei romani, dei papi.

L’architettura è anche uno strumento nelle mani dei politici, quindi ritorna il discorso del committente che non è necessariamente il comune o l’azienda ospedaliera:  il committente può essere anche un governo.

Negli otto anni in cui ho lavorato in medio-oriente, non abbiamo mai avuto un cliente privato. Il cliente è stato lo Scià di Persia, Gheddafi, Saddam Hussein etc. Erano politici, despoti, dittatori. Cliente è stato anche G. Pompidou. Ci sono persone che capiscono perfettamente che l’architettura può essere usata per fini sociali e politici.

Allora è il progettista, incaricato anche con fini strumentali a volte,  che deve svolgere il suo compito per dare un lavoro che soddisfi le esigenze della comunità, al di la dei politici. Quindi, se devo fare un centro culturale o una biblioteca, che il committente si chiami Pompidou o altri, faccio del mio meglio affinché io produca un elemento che urbanisticamente si inserisca bene nella città e architettonicamente risolva al meglio la funzione per cui è stato creato.

Metodo, corretto approccio alla progettazione ed eccessivo protagonismo delle cosiddette archistar: lei spesso, nei suoi interventi, fa riferimento alla multidisciplinarietà, al lavoro di squadra nella progettazione. Ci pare un ottimo insegnamento per i giovani e per i futuri tecnici, visto il contesto in cui ci troviamo, ma costituisce anche un ottimo framework o, semplicemente, una buona “rinfrescata” per tutti i progettisti…

GDM Certo. Proprio uno dei miei ultimi interventi qui all’Università di Salerno, poco tempo fa, aveva per titolo ”architetti e ingegneri: una rivalità tra gemelli”. Molto spesso si sente dire che l’architetto si occupa dell’estetica, l’ingegnere di qualcos’altro che non si capisce bene e che non si nomina neanche per quanto sia bassa.

Tengo a ribadire che l’estetica non è monopolio dell’architetto o di una particolare classe. Persone semplici, a volte, hanno un senso estetico eccezionale, come per esempio mio padre che aveva fatto solo fino alla terza elementare. Sono questioni di arroganza di cui spesso mi lamento e mi fanno riflettere su come, in alcuni Paesi, il corso di architettura sia fatto attraverso quattro anni di arroganza e solo uno di disegno.

Bisognerebbe stravolgerli e fare quattro anni di disegno e un anno di sociologia o un anno di umiltà. Il metodo multidisciplinare è un metodo olistico, che deve abbracciare il tutto. Un progetto poco complesso o di limitate dimensioni, può essere condotto in modo olistico da un unico progettista che si occupa di tutti gli aspetti, da quello urbanistico a quello delle fondazioni, all’impiantistico, ecc. Può darsi che sia così. Ma generalmente non è così. Siamo diventati così complicati e abbiamo tanti limiti che è conveniente procedere per specialismi. Fa bene a tutti. E allora bisogna trovare il modo onesto di poterlo fare.

Perché uno dei grossi problemi che io vedo in Italia è ancora questa ‘heritage’-eredità di tipo fascista: ”abbiamo bisogno di un duce, di un nome di riferimento” e questo nome  diventa l’unico protagonista che praticamente sfrutta il lavoro degli altri. Non è appropriato e non lo è neanche dal punto di vista economico perché tutti fanno del loro meglio per contribuire al progetto. Ciò determina il fatto che i vari professionisti col tempo divergono, non si interfacciano, lavorando ciascuno per conto proprio in isolamento.

C’è bisogno di un rinnovamento! Quando lo si analizza, ci si accorge che probabilmente il problema inizia proprio  qui, all’università. Se questi giovani, che ai seminari di questi giorni ci riempiono le aule, vengono indirizzati solo ad elaborare numeri, diventano, ahimè, dei ‘numerai’ e non dei ‘creatori’! Quindi venderanno numeri e basta, spesso senza neanche capire il perché di quei numeri.

Visitando le varie facoltà italiane, dalle Alpi alla Sicilia, ho notato una cosa terribile: non si insegna progettazione! La progettazione ingegneristica, materia complessa, non esiste: s’insegna l’analisi matematica, la statica, esami scientifici e basta, costringendo questi ragazzi a fare solo numeri. Ma questi numeri, oggi, li fanno le macchine! Allora bisogna educarli ad usare il cervello, l’ingegno.

Impieghiamo il loro tempo in modo creativo, altrimenti non ci seguiranno più. Come è possibile pensare che una giovane mente sia disposta ancora a lavorare una vita intera su fondazioni, travetti, colonne etc la cui posizione viene decisa da altri? Spingiamoli a decidere autonomamente: qualche volta quella colonna può anche reggere ma la sua posizione rovina il flusso dello spazio! Te la senti davvero di usarla e lasciarla in quella posizione? Non sarebbe meglio toglierla o addirittura metterne due ma in modo particolare? Non perché servano staticamente ma perché ti organizzano lo spazio in modo migliore.

Sono preoccupato. Spesso ci arrivano e-mail dall’India con le quali si offrono elaborazioni di calcolo per i propri progetti: inviaci il progetto, te lo risolveremo secondo i regolamenti del tuo Paese. E tu dovresti lavorare con persone di cui non conosci nulla, per arrivare, molto probabilmente, ad un prodotto finale senza capo né coda.

Purtroppo ci stiamo dirigendo velocemente verso un tipo di realtà in cui per guadagnare si rinuncia alla creatività. Spesso il sogno di certi professionisti è quello di ‘mettere su un centro di calcolo’. Ne avete mai sentito parlare?! L’Italia è l’unico posto in cui ho sentito parlare di centro di calcolo, luogo gestito chissà come, cui affidi i tuoi disegni per ricevere in cambio, dopo qualche tempo, quindici chili di carta. Questo è l’ideale da perseguire da parte dei nostri giovani ingegneri? No, non credo proprio. Quindi, cerchiamo di insegnare e di trasmettere la creatività, lo stimolo, il preoccuparsi del modo migliore di risolvere i problemi, l’abbandono della ‘ovvietà’ che rende brutte le nostre città.

-Nel descrivere la genesi del progetto, lei parte dai desiderata del committente e dall’archetipo del progettista, intendendo con esso una prima idea di soluzione concretizzata sub specie architectonica. Ecco, in questo passaggio fondamentale tra richiesta-funzione e schizzo progettuale, il luogo in cui deve sorgere l’opera che ruolo ha?

GDME’ fondamentale. Ho notato che questa è una delle cose che si è salvata. Preliminarmente ad ogni lavoro, e questo vale anche per gli architetti italiani, la prima cosa che si fa è la visita al sito. In tantissimi progetti in cui sono stato coinvolto, prima di iniziare, e questo anche se all’estero, si andava sul sito.

Il sito si guarda, si osserva, si cammina. Ognuno se lo ‘annusa’ e lo misura a modo suo. E’ importantissimo. Devo anche dire questo: moltissimi maestri dell’architettura odierni lo fanno. Ricordo di recente il sopralluogo a Torino con Arata Isozaki per la realizzazione del Palahockey e la premura con cui l’architetto si preoccupasse che il luogo fosse migliorato dal suo progetto piuttosto che aggredito. Ma ci sono architetti importanti che pensano non sia indispensabile considerare il fattore luogo.

I risultati, a volte, sono interessanti ma solo se osservati fuori contesto. E’ un fenomeno particolare ed interessante. Io credo che da sempre vi sia stata un’attenzione ai luoghi, anche nella architettura senza architetti, nella nascita spontanea di villaggi, e l’Italia ne ha tanti che si son ben conservati fino agli anni cinquanta. In essi sembra che le cose siano nate con un’armonia particolare, anche nella loro diversità.

Quando noi si parla di purezza di stile come qualcosa a cui tendiamo, non dobbiamo dimenticare che le nostre città sono belle anche perché son varie, non hanno tutte lo stesso stile né la stessa tecnologia ma gli “autori”, i nostri antenati, hanno sempre avuto una cura ed un’attenzione straordinari per luoghi, una maestria priva di divismo. Chi ha progettato i villaggi medievali? Chissà..eppure sono bellissimi.

-Facciamo un salto di scala e allarghiamo il discorso del metodo progettuale anche all’urbanistica: c’è il rischio che interventi su interi brani di città, magari sdoganati da slogan d’effetto come “rottamazione urbana” diventino nuove operazioni speculative prive di qualità ?

GDM – Questo è un problema acutizzatosi negli ultimi anni e che diventerà sempre più grave, temo. Fu messo in luce nella penultima Biennale, quella curata dall’architetto Fuksas e che aveva per titolo proprio “Less aesthetics, more ethics”, meno estetica e più etica. La vita si è trasformata in modo tale da indirizzarci verso le megalopoli. Non siamo pronti. Si sta verificando un processo che può distruggere qualunque territorio. Si va da Mestre a Bari, percorrendo la statale, senza incontrare un brano di territorio non urbanizzato.

Quando dieci anni fa ho cominciato a riprendere contatto con le mie radici, ricordo in maniera scioccante l’esperienza di percorrere la strada da Eboli a Pontecagnano: un’unica fila di costruzioni mi ha accompagnato lungo tutto il tragitto. Dov’era la campagna? E le colline? Che fine ha fatto la cittadina di Bellizzi? Completamente fagocitata da Battipaglia che tra poco fagociterà pure Eboli.

Non si sta dando al problema l’attenzione che merita.

E’ difficile intervenire senza competenze e strumenti normativi urbanistici, risorse o personale qualificato. Alle volte è più facile intervenire quando parti da zero. Proprio alla citata edizione della Biennale, ricordo che come Arup presentammo il progetto della città cinese di Dongtang, a sud di Shangai, dimensionata per ospitare fino a mezzo milione di abitanti. Nasce intorno ad una infrastruttura in grado di gestire la produzione energetica, anche attraverso mezzi ecosostenibili, lo smaltimento dei rifiuti, il trattamento dei liquami, ecc. per l’intera comunità.

E’ un moderno processo di pianificazione attuato da un governo per una città del futuro. Non è sempre possibile intervenire in questo modo, naturalmente. Noi professionisti, urbanisti, architetti, ingegneri, possiamo sollevare il problema ma non tocca a noi risolverlo. Tocca al nostro committente ultimo: il politico.

Ed è molto problematico qui in Italia che si giunga ad una soluzione, fosse anche solo per l’assurdità della burocrazia. Prendete il caso del progetto Foster-Arup per la stazione alta velocità di Firenze: concorso internazionale gestito dall’Ente ferroviario statale, indicazioni precise e definite concordate prima dell’espletamento concorsuale.

Esito del concorso, iter progettuale concluso, varie conferenze di servizi espletate, lavori appaltati: cambia l’amministrazione comunale e non va più bene il progetto! Pare non condivida il percorso previsto all’interno della città. Ma scherziamo?!  Della nuova stazione col suo percorso se n’era discusso dai tempi del governo Fanfani, se ne parla da cinquant’anni! Il progetto non è criticato nella sua qualità architettonica, bisogna cambiare il percorso dei binari.

A parte i danni economici, ritorna tutto l’iter delle conferenze di servizi, ogni ufficio prende i suoi tempi, tutto daccapo! E’ probabile che ci ritroveremo di fronte ad un altro di quelli che io chiamo “bambini con la barba”, edifici, cioè, progettati vent’anni prima della realizzazione e poi nati vecchi! E’ un modo terribile di gestire le risorse del Paese. E’ un modo terribile di guardare alla soluzione dei problemi delle città del futuro.

3 commenti su “Intervista a Del Mese (Arup): Nuove frontiere tra progetto e metodo”

  1. Concordo pienamente,una dissertazione mai banale e sempre avvincente,tipica degli uomini che fondono arte & scienza.Se il ciclo dell’architettura moderna può essere consegnato alla storia, la cultura architettonica può smettere di riflettere su se stessa e concentrarsi piuttosto sullo scenario fisico mondiale. Il nuovo punto di partenza non deve essere un consuntivo delle esperienze passate, ma un giudizio obiettivo sul loro risultato complessivo: il paesaggio concreto, prodotto di tutti gli interventi avvenuti, delle proposte innovative di ogni genere e delle resistenze contrapposte. Il quadro che ne risulta, ben diverso dai programmi teorici che lo hanno originato, è la base per il lavoro da svolgere sul presente. È per questo motivo che tentare un’analisi ravvicinata dell’attualità architettonica riveste, oggi, un ruolo tanto importante. In questo frangente per esempio, Leonardo Benevolo offre un quadro personale e ragionato delle esperienze più recenti e, attraverso le personalità e una selezione di opere emblematiche del nuovo corso architettonico, invita a riflettere per proprio conto su quel che succede, per inoltrarsi a loro volta nell’ignoto futuro.I materiali contemporanei fusi ai software avanzati di progettistica, saranno una fucina di idee per gli Architetti del 21° sec.,i quali potranno supportasi su dinamiche prima impensabili e delle sue componenti estetiche proponendosi come documentazione delle potenzialità reali quotidiane di architettura e urbanistica.

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  2. Gabriele, sai quanto ti stimo e quanto ho potuto apprezzare la tua filosofia ingegneristica in quei pochi incontri che abbiamo avuto, ma mi permetto di rivendicare, dal mio piccolo laboratorio, che forse viene sottovalutato spesso lo sforzo degli studi di committenza privata. E’ proprio in questa fetta di mercato, dato l’esiguità di risorse finanziarie, che molti di noi professionisti devono misurarsi e dare il massimo per la collettività, anche sacrificandosi economicamente per poter fare lavoro di squadra con altri colleghi. Nelle committenze pubbliche credo che questo non sia un problema. E’ nel quotidiano progettare che si misurano sforzi, capacità e qualità , ma con un handicap che sono le risorse. Molti come me sono disposti per passione ed altro a mettersi in discussione, con risultati che il tempo verificherà, ma spesso questo livello di professione viene ignorato, anche dagli ordini. In conclusione posso affermare dalla mia piccola esperienza professionale ormai di 18 anni, in cui posso essere orgoglioso di aver un discreto curriculum di opere progettate e realizzate, che un metodo ripaga sempre : lavoro, umiltà, collaborazione interdisciplinare ed approccio universitario alla progettazione : conoscere ricercare, studiare confrontare. Auguri Gabriele

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