Il Tribunale di Milano ammette l’Editoriale Linkiesta al concordato preventivo. Perdite milionarie, debiti strutturali e un sistema informativo ormai fuori equilibrio. Il caso Linkiesta certifica che la crisi dell’editoria non risparmia più nessuno. Nemmeno il digitale “puro”. Tra perdite, debiti e costi fuori controllo, emerge il collasso di un modello informativo sovraccarico, mentre i social continuano a operare senza una vera regolamentazione.

di Marco Naponiello per POLITICADEMENTE il blog di Massimo Del Mese
ROMA – L’Editoriale Linkiesta è stata ammessa a procedura di concordato preventivo dal Tribunale di Milano. Un dato tecnico, formale, ma politicamente e culturalmente devastante. La società avrà tempo fino al 7 gennaio 2026 per presentare un progetto definitivo di concordato e tentare di uscire da una crisi che, numeri alla mano, appare strutturale e non contingente.
Secondo i dati emersi, nel 2024 Linkiesta ha registrato 2,3 milioni di euro di ricavi a fronte di 1,77 milioni di perdite, con 3,1 milioni di debiti complessivi, di cui 1,5 milioni verso il fisco e quasi un milione tra Inpgi e Inps. Nei primi dieci mesi del 2025 la situazione è ulteriormente peggiorata: 1,14 milioni di perdite su un valore della produzione fermo a 639 mila euro. Numeri che raccontano un sistema che consuma più risorse di quante ne produca.
La notizia non riguarda solo Linkiesta. È una brutta notizia per l’intero mondo dell’informazione online italiana. Perché smentisce definitivamente una favola durata oltre un decennio: quella secondo cui il digitale sarebbe stato, di per sé, la soluzione alla crisi dell’editoria.
Fondata nel 2010 con l’obiettivo di introdurre in Italia un modello innovativo basato su inchieste finanziate dai lettori, Linkiesta si è progressivamente trasformata in una casa editrice tradizionale espansa: sito web, magazine, libri cartacei e digitali, eventi live, branded content, produzione editoriale per terzi. Troppe attività, però, per un mercato sempre più povero.
Nel dettaglio, nel solo 2024:
- 940 mila euro dai contenuti editoriali per terzi;
- 490 mila euro dalla pubblicità sui magazine cartacei;
- 376 mila euro dal branded content;
- 286 mila euro dall’attività giornalistica online;
- 108 mila euro dalla pubblicità sul sito;
- 60 mila euro dalla vendita di libri e magazine online;
- 60 mila euro da librerie ed edicole.
A fronte di costi di produzione esplosi oltre i 4 milioni di euro, con una voce in particolare fuori scala: il personale, passato da 500 mila a 1,4 milioni di euro.
Di fronte alla crisi di liquidità, nel luglio 2025 gli azionisti hanno tentato una mossa difensiva: la creazione di una nuova società, Linkiesta Media, alla quale sono state concesse in affitto tutte le attività editoriali. Un’operazione tecnicamente legittima, ma che certifica la separazione tra contenuti e debiti. La vecchia Editoriale Linkiesta resta così il contenitore della crisi, ora formalmente sotto concordato.
Questo caso dimostra che la crisi non colpisce solo il cartaceo. Colpisce anche il digitale, anche chi produce contenuti di qualità, anche chi ha un’identità editoriale riconoscibile. Il problema non è più il mezzo, ma il sovraffollamento informativo: troppe testate, troppe voci, troppi contenuti che competono per risorse pubblicitarie sempre più scarse.
In questo caos, i social network svolgono un ruolo ambiguo. Hanno ampliato il dibattito, ma lo hanno anche de-professionalizzato. Tutto vale allo stesso modo: l’inchiesta, l’opinione, la fake news, la propaganda. L’autorevolezza è schiacciata dall’algoritmo, il giornalismo dal rumore.
Da qui la necessità, sempre più urgente, di una regolamentazione seria dell’informazione sulle piattaforme digitali. Non per limitare la libertà di espressione, ma per ristabilire responsabilità, trasparenza e tracciabilità. Il legislatore è colpevolmente in ritardo. Le autorità di controllo, a partire dall’AGCOM, avrebbero bisogno di maggiori poteri e strumenti, dopo opportune e approfondite indagini sul funzionamento reale del mercato informativo digitale.
Il concordato di Linkiesta non è solo una pratica giudiziaria.
È un atto d’accusa contro un sistema che ha lasciato il giornalismo da solo, convinto che il web potesse fare miracoli. Non li ha fatti. E ora il conto è arrivato e con chatbot, computer quantistici e aggregati vari sarà ancora più salato per gli operatori dell’informazione e e gli imprenditori; rimandare alle calende greche sarebbe derogare alla libera informazione umana.
Roma 20 dicembre 2025






