NUCLEARE – Intervista a Grazia Francescato, Segretaria Nazionale dei Verdi

ROMA – Riceviamo e pubblichiamo l’agenda dei lavori in relazione all’incontro sulla proliferazione Nucleare, per  la realizzazione di nuovi impianti di generazione elettrica da fonte nucleare, che l’ASPEN ha chiesto alla Segretaria Nazionale dei Verdi Grazia Francescato (nella foto), curati dal Responsabile Nazionale Energia dei Verdi Erasmo Venosi.

Incontro Aspen/Francescato

“Esiste una diffusa tendenza in tutti i Paesi industrializzati verso la realizzazione di nuovi impianti di generazione elettrica da fonte nucleare, tanto che è ormai in uso l’espressione “nuclear renaissance”. In seguito al referendum del 1987 l’Italia, già in possesso di questa tecnologia, ha rinunciato al nucleare: è pertanto strutturalmente più esposta alle variazioni dei prezzi dei combustibili fossili, che incidono in modo determinante sulla competitività del sistema Paese. È per tale ragione che l’Italia può beneficiare del rilancio della generazione nucleare”

Questa tendenza verso “la realizzazione di nuovi impianti nucleari” contrasta in modo sostanziale con i dati in nostro possesso. I Paesi che oggi utilizzano la tecnologia nucleare nel mondo sono 31 su 193. Se è vero che l’utilizzo di tale tecnologia è sicuramente più diffusa nei paesi industrializzati è altrettanto vero che ben l’85% dell’energia atomica, a livello globale, viene prodotta da soli 17 stati. Nell’Unione Europea a 25, sono attualmente in funzione 151 reattori mentre, sempre in ambito comunitario, i Paesi che non utilizzano il nucleare e che, in prospettiva, non hanno intenzione di farlo sono 12. Dei restanti 13, invece, 4 hanno deciso di chiudere gli impianti esistenti (Germania, Belgio, Svezia e Olanda). Attualmente le 27 centrali in corso di realizzazione (delle quali 15 sono localizzate nell’Estremo Oriente e 9 nelle repubbliche ex sovietiche), e che rappresenterebbero solo il 6% dell’energia prodotta, sono localizzate in soli 10 Paesi.

Particolarmente significativa è la battuta d’arresto che hanno subito i programmi nucleari nei Paesi maggiormente nuclearizzati:

In Gran Bretagna, l’allora premier Tony Blair, nel Rapporto Energy Challenge redatto nel 2006, rilevò il rischio per il Paese di non riuscire a realizzare gli investimenti per la sostituzione, entro il 2020 del proprio parco di centrali. Definì gli impianti “vecchi e decrepiti” (The Economist del 13 giugno 2006): infatti ben 4 centrali atomiche britanniche sono arrivate a fine ciclo;

Negli Stati Uniti, nonostante il “Nuclear 2010 Project” redatto nel 2002 e l’Energy Act del 2005, entrambi rivolti a garantire maggiore celerità nel rilascio delle autorizzazioni necessarie e che garantivano notevoli incentivi ed agevolazioni fiscali, non è stata realizzata nessuna delle 20 centrali programmate;

In Francia, gli scenari per i prossimi vent’anni, prevedono una consistente riduzione della potenza nucleare istallata (da 62  Gw a 55 Gw), con un conseguente incremento dell’incidenza del metano nel mix delle fonti utilizzate fino a 80 Gw, rendendolo prevalente all’interno del sistema energetico francese (fonte: Memento sur l’energie” del Commissariat à l’ènergie anno 2006 p.46). Il processo di sostituzione delle 58 centrali attualmente in funzione dovrebbe avere inizio nel 2017 e, di queste, dovrebbe coinvolgere 19 impianti;

Nel 2007 è stata rilevata una diminuzione complessiva dell’1,9% nella produzione di energia elettrica da fonte nucleare (da 2658 Twh a 2608 Twh – fonte: World Nuclear News 9 giugno 2008 e International Atomic Agency), dovuta alla chiusura dei 7 impianti della centrale Kashiwazaki Kariwa in Giappone per i danni causati dai recenti eventi sismici.

Considerato che la media mondiale dell’età dei reattori in funzione si attesta intorno ai 21 anni, i 33 reattori in costruzione (che utilizzano tecnologia di c.d. seconda generazione) andrebbero a compensare solo una parte dei 79 che hanno superato i 30 anni di vita e che sono quindi da dismettere.

“Elevati investimenti specifici, lunghi tempi di ritorno del capitale investito, la necessità di un sistema Paese che assicuri infrastrutture (regolatorie, di ricerca, tecnologiche, di gestione del ciclo dei rifiuti, e così via) congruenti e in sintonia con l’investimento stesso, il bisogno di una scelta tecnologica unica e standardizzata possono sembrare in contrasto con una logica di mercato elettrico totalmente liberalizzato.

È vero. L’utilizzo della fonte nucleare per la produzione di energia elettrica contrasta con la logica del mercato elettrico liberalizzato e risulta economicamente non sostenibile. Basta pensare che il costo preventivato per la realizzazione della centrale di terza generazione in costruzione in Finlandia è cresciuto, in pochissimo tempo, da 3,6 miliardi di euro a 4,5. Ma basta guardare in Italia, a quanto avvenuto per la centrale di Montalto di Castro, i cui costi preventivati, pari a 600 miliardi di Lire, aumentarono a dismisura, a consuntivo, fino a raggiungere la somma di ben 5.944 miliardi di Lire, per avere una dimensione di quale possa essere la lievitazione dei costi per la costruzione di ogni singolo singolo impianto.

Nel giugno del 2007 un Report dell’istituto Keystone Center stimava il costo di costruzione di una nuova centrale nucleare tra 3.600 e 4.000 dollari per Kilowatt di potenza installata. Nell’ ottobre del 2007 un dossier di Moody’s quantificava tale costo in 5.000 e 6.000 dollari/Kw. Le ultime stime di alcuni “contractors” impegnati nella costruzione di diversi reattori in Florida quantificano tali costi in 8.000 dollari/Kw.

Andrebbero, poi, correttamente computati nelle valutazioni di natura economica anche i costi di dismissione: in Gran Bretagna, a luglio, la Nuclear Decommissioning Authority ha calcolato in 83 miliardi di sterline la spesa a carico della collettività, la somma necessaria per la chiusura delle centrali obsolete. Di conseguenza, In Italia, il costo d’investimento per le 10 centrali previste dal governo oscillerebbe tra i 36 e gli 80 miliardi di Euro (costo c.d. overnight). Occorre sottolineare, inoltre, che nessun Paese al mondo ha risolto il problema della c.d. “chiusura del ciclo del combustibile”, neanche negli USA, dove, a 20 anni di distanza, resta emblematica la vicenda del sito di confinamento geologico delle scorie ad alta attività localizzato presso la “Yucca Mountain”.

A quali condizioni si possono conciliare le esigenze di un mercato liberalizzato con le esigenze intrinseche della tecnologia nucleare?

Si tratta di esigenze a nostro avviso inconciliabili. Gli assetti concorrenziali dei mercati elettrici liberalizzati determinano un conflitto tra programmazione, affidabilità e ottimizzazione degli investimenti, elementi strutturali di imprese monopolistiche verticalmente integrate (es. l’Enel prima maniera), tanto quanto il concetto di redditività e la considerazione dei tempi di ritorno degli investimenti. In altri termini la liberalizzazione del mercato elettrico ha fatto venir meno le ragioni che potevano rendere conveniente la produzione di energia elettrica con tecnologia nucleare. In particolare sono venute meno:

1) la possibilità di sostenere con risorse pubbliche le imprese elettriche giustificata dalla necessità di compensare la mancata remunerazione degli investimenti da parte del mercato;

2) la certezza della domanda finale;

3) l’applicazione di tariffe tali da consentire il recupero dell’investimento e la remunerazione del capitale investito;

4) l’assenza di libertà di scelta del fornitore da parte del cliente finale che, restringendo l’orizzonte temporale delle imprese, le induce a limitare il più possibile l’intensità di capitale impiegato.

5) il divieto di concedere aiuti di stato ha reso problematico l’intervento pubblico a sostegno delle imprese.

Risulterà coerente con il diritto comunitario la fissazione di un tetto all’ammontare delle spese da sostenere per l’attività di “decommissioning” e per il condizionamento delle scorie?

Andrebbe, infine, considerato il probabile effetto combinato di un processo di contestuale privatizzazione e liberalizzazione, ovvero: i processi di liberalizzazione, generalmente, tendono ad incrementare il tasso di rischio economico dell’investimento, mentre, d’altro canto, quelli di privatizzazione inducono un aumento dell’avversione per il rischio medesimo.

Quali i rischi e le problematiche per attuare con successo una strategia complessiva di rilancio del nucleare? Quale il ruolo delle altre fonti di energia?

Qualunque tipo di strategia per il rilancio del nucleare troverebbe dei fortissimi ostacoli sia dal punto di vista economico che della sicurezza. Lo dimostra il fatto che la maggior parte dei paesi industrializzati stia investendo con forza sempre crescente su altre fonti per la produzione di energia elettrica. In Francia si sta varando un piano che si ritiene porterà, entro il 2020, la quota di energia da fonte rinnovabile fino al 23% dei consumi finali di energia. Un obiettivo superiore a quello definito nel pacchetto energia-clima della UE. Si conta di raggiungere questo risultato attraverso la moltiplicazione della potenza installata per 400 sul fotovoltaico, per 10 sull’eolico, per 6 relativamente al geotermico e per 2 quella originata da biomasse.

Nel Regno Unito si lavora su di un piano per le fonti rinnovabili e per l’efficienza energetica. Si ipotizza addirittura che, a partire dal 2016, tutti i nuovi edifici dovranno essere a emissione zero.

Negli Stati Uniti il Presidente Obama ha manifestato l’intenzione di riportare le emissioni inquinanti ai livelli del 1990 entro il 2020, portando il contributo delle fonti rinnovabili al 25% del totale. Non pare casuale la nomina di Podestà a capo dello staff che gestirà la transizione americana: attraverso lo studio Green Recovery ha proposto di basare il rilancio dell’economia nazionale sull’ efficienza energetica e sulle fonti rinnovabili, ipotizzando, anche mediante supporto pubblico la creazione di circa 2 milioni di posti di lavoro.

Tornando alla questione dei costi dell’energia elettronucleare, già nello studio elaborato dall’ MIT, (“The Future of Nuclear Power”, Cambrige, 2003) viene sostenuto che “nei mercati deregolamentati le centrali nucleari non sono oggi economicamente competitive”.

Anche il più grande produttore elettronucleare, Elecrticitè de France, nello studio “Energie Nuclèaire: la nouveau dèbat mondial” (2004 Edf-DPRI), afferma che la competitività del nucleare “è questione complessa e controversa, tale da non consentire univoche e certe conclusioni”; che “il confronto della competitività tra fonti energetiche può portare a risultati divergenti, in funzione sia delle specifiche situazioni reali che degli specifici valori delle variabili a cui si fa riferimento e che i criteri di combinazione dei costi possono comportare variazioni comprese tra 1 e 2,5 volte” e ancora che“l’’introduzione di un mercato concorrenziale ha penalizzato le tecnologie ad alta intensità di capitale”.

In che modo le scelte politiche istituzionali possono e devono accompagnare questo cammino?

Non si può pensare ad un programma nucleare in Italia senza uno sconvolgimento complessivo di tutto il nostro sistema economico e legislativo che avrebbe un effetto destabilizzante sia dal punto di vista sociale che finanziario. Occorrerebbero, infatti, leggi che pongano limiti all’intervento assicurativo in caso di incidente nucleare ed ai costi per lo smantellamento delle centrali e per la gestione delle scorie, socializzazione di rischi e costi.

Occorrerebbe inoltre un intervento sui tempi e sulle procedure delle necessarie autorizzazioni, rischiando di entrare in conflitto con i fondamenti dello Stato di diritto e con i Principi del Trattato dell’Unione e di quello di Lisbona, oltre che con un evidente deficit democratico.

Che tipo di partnership si deve realizzare tra Stato e operatori privati? (secondo me non mettere).

La questione appare già affrontata nell’art 16-bis del ddl n 1441 che prevede la creazione di consorzi tra produttori, consumatori e Cassa Depositi e Prestiti. Probabilmente i produttori e i consumatori saranno le ex municipalizzate come Hera e A2A.

Tale soluzione consentirebbe, oltremodo, un surrettizio stop al processo di privatizzazione di tali entità aziendali. Al di fuori di questa soluzione consortile nascerebbero una serie di problematiche. Spetterebbe a Enel l’onere di realizzare e gestire gli impianti nucleari. Enel fa capo per il 22% al Dipartimento Tesoro e per il 10 alla Cassa Depositi e Prestiti risulta peraltro vulnerabile rispetto ad eventuali OPA totalitarie (vanno però considerati i poteri speciali del Ministero dell’Economia).

Sarebbe comunque complicato ovviare a questo rischio, ad esempio riacquistando azioni proprie fino alla concorrenza del 51%. Va ricordato che la Società fu obbligata a collocare le proprie azioni sul mercato per effetto delle liberalizzazioni. Si potrebbe scorporare la attività nel nucleare conferendola ad un’altra impresa in mani pubbliche, avviando una rinazionalizzazione che comporterebbe ulteriori difficoltà, almeno sotto il profilo delle condizioni alle quali aziende private trovassero conveniente entrare nel capitale di siffatta azienda.

Quali forme di finanziamento occorre prevedere per un importante programma di investimenti?

Gli strumenti finanziari per un eventuale programma nucleare avrebbero un intrinseco intervento del settore pubblico e non sarebbero sostenibili dal mercato. Il primo scoglio è quello del combustibile: non esiste un vero mercato dell’uranio ma solo una serie di contratti bilaterali. Su queste basi chi garantirà i produttori di energia nucleare dalle oscillazioni del prezzo del minerale? Un fondo pubblico? Basti pensare che nel 2000 un kg di uranio costava 7 dollari mentre oggi ne costa 120 e che il 55% delle riserve note sono concentrate in 3 Paesi: Australia, Kazachistan e Canada. Inoltre, concentrare ingenti risorse su un indeterminato programma nucleare significherebbe frenare gli investimenti sull’innovazione, sulle rinnovabili e sull’efficienza energetica che verrebbero inevitabilmente penalizzate, lasciando l’Italia fuori dai processi economici ed energetici del futuro, su i quali tutto l’Occidente sta investendo con forza.

Quale l’impatto sull’ambiente? Attraverso quali iniziative è possibile ottenere un consenso stabile dell’opinione pubblica? Quale il ruolo della comunicazione?

Oltre a costi economici e sociali altissimi l’impatto sull’ambiente e sugli ecosistemi sarebbe fortissimo. Le centrali dovrebbero essere lontane dai centri abitati, collocate in aree che abbiano precise caratteristiche sia dal punto di vista sismologico che e geostrutturale. Tali requisiti di compatibilità, rispetto all’ubicazione delle centrali, sono riscontrabili esclusivamente in pochissime aree ed in particolare nella Pianura Padana.

Gli impianti per la produzione di energia nucleare avrebbero un notevole impatto dovuto all’inquinamento termico, mitigabile solo attraverso l’utilizzo di quantità esagerate di acqua, alla concentrazione dei radionuclidi nelle catene alimentari ed alla militarizzazione del territorio. Qualunque campagne informative a favore del nucleare hanno una certa capacità di penetrazione solo quando riguardano aspetti generici e non considerano invece problemi quali la localizzazione degli impianti. In tutti i sondaggi, infatti, i cittadini si sono detti fortemente contrari alla collocazione delle centrali nella loro regione. E questo testimonia come su un piano pratico e diretto i cittadini siano contrari alla realizzazione di impianti nucleari nel nostro Paese.

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