Parla del diritto alla casa come bene primario, della difesa degli ultimi, di salario minimo, redistribuzione, conversione digitale ed ecologica. Vuole abolire la legge Bossi-Fini, vuole una nuova legge elettorale. Vuole un partito che faccia scelte chiare, scansi le larghe intese, metta al centro della propria azione «quell’intreccio tra giustizia sociale e climatica che è già centrale nella vita delle persone». Insomma, ha in mente un programma di governo, oltreché di opposizione. Ma non chiedetele la prima cosa che farebbe da segretaria del Pd: «No, mi spiace, non saprei dire: non è così che ragiono».

Elly Schlein è irritante perché non sa giocare su un terreno precostituito. Forse è per questo che è riuscita a farsi largo, in dieci anni di politica-politica, con un percorso fuori dagli schemi, sopravvivendo alle più micidiali correnti gravitazionali della sinistra. Forse è per questo che ora, da candidata alla segreteria Pd, viene guardata come una marziana. Dentro il partito, si intende: perché fuori la capiscono benissimo. In strada la fermano i ragazzi, ma anche gli anziani, la pregano di «resistere»; le manifestazioni, che di solito riesce a lasciare solo per ultima, nella sua campagna per le primarie diventano assemblee spontanee, autocoscienze collettive, ricongiungimenti familiari a microfono aperto. «Mi piace fare ragionamenti sulla fase politica. Non offro posti, semmai un posto dove stare. Capisco che posso sembrare strana, assicuro che non lo sono. Nei palazzi sembro un’aliena, ma forse è un bene: se dobbiamo cambiare metodo, non ci dobbiamo allineare a quello che ci ha portato alla sconfitta», dice.

Schlein è la felicità di chi sguazza negli stereotipi. È donna, quindi le appioppano padrini e padroni, da Romano Prodi a Dario Franceschini, «anche se non mi sono mai fatta cooptare e non comincerò ora». Ama un’altra donna, quindi le hanno confezionato il vestitino di paladina dei diritti civili: è ovvio non possa occuparsi d’altro, no? È giovane, ha 37 anni, quindi la trattano alla stregua di una novizia, anche se ha governato, è stata eletta, animava la protesta di Occupy Pd nel 2013, è stata europarlamentare e vicepresidente dell’Emilia-Romagna, è stata la più votata nella sua regione nel 2020: 23 mila voti, la metà circa degli attuali iscritti nel Pd.

Schlein perché la dipingono pericolosa estremista minoritaria e/o velleitaria?
«Veniamo per cambiare, non mi aspettavo tappeti rossi, mi sarei preoccupata del contrario. Ma chi la pensa così non ha capito che le istanze che portiamo avanti sono centrali, non marginali: le stesse di chi vota Pd».

Si è fatta un’idea del perché la vedono così?
«Sfuggiamo dagli schemi tradizionali di costruzione del consenso, siamo creature misteriose. Non siamo qui per una resa dei conti identitaria, ma per rinnovare insieme, con una visione credibile attorno a tre cardini: il lavoro, le diseguaglianze e il clima. Nella società c’è già una consapevolezza che tiene intrecciate queste lotte. Sovrapposizioni che le nuove generazioni subiscono in modo particolare, mentre alla sinistra è mancato proprio il saper anticipare le grandi trasformazioni che spaventano la società».

È per questo che ha perso le elezioni?
«Se non guidi i processi di trasformazione, accadono lo stesso, ma vanno addosso ai più fragili. È per questo che per ricostruire un nuovo Pd serve anzitutto rispondere alle aspettative della sua base: difendere chi sta peggio, chi è marginalizzato. Devi mettere al centro questi temi: redistribuzione, un grande investimento sulla conversione digitale ed ecologica. Bisogna ridurre i divari. Nel Pd che sogniamo torna al centro la difesa della casa come bene primario. Serve investire nelle case popolari, riqualificandole, come ho fatto in Emilia-Romagna: così abbassi le bollette alla fascia più povera e nel contempo riduci le emissioni»

Anche Meloni dice che la casa «è sacra, non tassabile, non pignorabile».
«La presidente del Consiglio pensa soltanto a quelli che hanno già una casa di proprietà, non vede che oggi per prendere il mutuo ti chiedono garanzie che la gran parte dei giovani non può fornire, visto che il 62 per cento dei giovani lavoratori ha contratti a termine. In questa manovra, ha deciso di tagliare le risorse grazie alle quali, ad esempio, avevo potuto, in Regione, investire in politiche di riduzione dell’affitto. Meloni quindi, quando parla della casa, mente sapendo di mentire».

Lei dice che diritti sociali e diritti civili sono inscindibili.
«E quando lo dico qualcuno ride. Ride perché non sa di che parlo. È facile ridere al caldo, ignorando che ci sono 4, 5 milioni di poveri, che hanno il doppio della probabilità di vivere in zone con dissesto idrogeologico».

Non le sembra di fare discorsi troppo complicati?
«A me sembra non si rendano conto che guidare la conversione ecologica significa dare fiato all’imprenditoria: le imprese green sono quelle che hanno resistito meglio alle difficoltà di questi anni, sono le nuove direttrici dello sviluppo».

Esempio?
«Sono allo studio nuovi parchi eolici offshore. Uno è in Sicilia, creerebbe 8 mila posti di lavoro. Questo governo sta tenendo bloccato il decreto sulle comunità energetiche, ma a Prato dello Stelvio – non a Oslo – la comunità c’è e ha prodotto un milione di euro di risparmio. Sono cose che esistono, si fanno già. La politica non le vede, la gente sì. Il nostro lavoro è anche questo».

Il Pd sta meglio al governo?
«Sarebbe stato meglio vincere le elezioni, perché la destra non sta facendo l’interesse del Paese. Ma voglio un partito che si rinnovi profondamente. Non abbiamo perso per mancanza di proposte, ma per un forte problema di credibilità».

Serve un nuovo gruppo dirigente?
«Sì, ma non basta. Serve un nuovo metodo, per gestire il partito. Non serve uno, o una, sola al comando. È il motivo per cui parlo al plurale e sto costruendo una squadra plurale. E per il quale, nell’attesa di cambiare questa legge elettorale, si dovranno fare primarie per selezionare i candidati. Non ci serve un partito degli eletti, o delle correnti: i partiti sono strumenti per migliorare la vita delle persone. Ci serve un Pd che sappia ridare voce alla base che in questi anni si è sentita poco ascoltata, o esclusa, da un sistema che non è fuggito dalla tentazione del governo per il governo, del potere per il potere».

Lo disse anche Letta, nel marzo 2021, quando fu eletto. Ma poi.
«Non sono certo la prima che sente questa esigenza. Nicola Zingaretti fece Piazza grande, Enrico Letta ha animato le Agorà. Questa candidatura è un progetto collettivo per costruire un ponte tra le energie che ci sono già dentro la comunità dem, con le spinte che ci sono fuori. Bisogna tenere insieme 5,6 milioni di elettori, salvaguardando il pluralismo ma senza rinunciare a una visione chiara. Significa scegliere».

Scegliere cosa?
«Dare una identità riconoscibile. Un Pd che sani le fratture coi nostri mondi di riferimento prodotte, ad esempio, da politiche del lavoro che hanno liberalizzato i contratti a termine. Il Pd che vogliamo costruire non farebbe il memorandum con la Libia, che ha creato una frattura con l’associazionismo, e abolirebbe la legge Bossi-Fini, studiata apposta per creare irregolarità, quando invece serve regolare il flusso di chi cerca lavoro».

Può esistere ancora il campo largo, con Conte che punta a svuotare il Pd? E la vocazione maggioritaria?
«Il bipolarismo non c’è più. Dobbiamo scegliere chi vogliamo rappresentare, e in una società dove le disuguaglianze sono aumentate vertiginosamente non possiamo rappresentare tutti. La proposta è di governo, a 360 gradi, ma deve avere anche il coraggio di rompere gli schemi, costruendo alleanze coerenti».

Lei è una nativa democratica, perché la sua possibile leadership ha prodotto tante allergie proprio nel Pd?
«In questo congresso non si tratta di fare una resa dei conti, tutte le culture di provenienza oggi sono poste davanti a un interrogativo: come cambiamo un modello di sviluppo che alimenta le disuguaglianze e distrugge il pianeta? Dobbiamo costruire una alternativa. Sembra che questo sia rivoluzionario, ma se qualcuno pensa che ciò che abbiamo fatto in questi anni è andato bene lo dica. Su giustizia sociale, climatica e ambientale sta discutendo il mondo».

Cosa la differenzia dal suo principale competitor, Stefano Bonaccini? Dopotutto avete governato insieme fino ad agosto, ha notato Massimo Cacciari.
«La nostra forza è stata proprio quella di fare lo sforzo di far convergere le nostre diversità, al governo. Ma siamo molto diversi sulla prospettiva politica, altrimenti non mi avrebbero chiamato per le Regionali del 2020, per chiedermi di dare una mano a contrastare l’avanzata delle destre».

Bonaccini è sempre stato favorevole all’autonomia differenziata. Aveva firmato un accordo con Zaia e Fontana. Lei si è sempre opposta, anche in giunta.
«Non l’ho mai ritenuta una priorità e oggi, di fronte al ddl Calderoli che trasuda secessionismo leghista e scavalca il Parlamento nella definizione dei diritti essenziali, penso sia un progetto da rigettare con forza. Insieme con l’altro che gli va a braccetto: il presidenzialismo. Troveranno la nostra opposizione a tutto ciò che comprometta il sistema di pesi e contrappesi previsto dalla Costituzione».

La pensavate all’opposto anche sul taglio dei parlamentari. Nel referendum del settembre 2020 lei votò no.
«Dicevo che avere meno deputati e senatori non garantisce di averne migliori: abbiamo un problema di qualità, non di quantità. Dicevo che quella riforma, mancando il cambio di legge elettorale, non incideva sui metodi di selezione della classe dirigente, e che quindi non sfiorava la questione morale. Tutte questioni attuali, mi pare».

L’ha imbarazzata quando al Monk, il giorno in cui si è candidata, si sono tutti messi a cantare Bella ciao?
«È stato spontaneo, mi ha fatto piacere, la conosciamo tutti. Non siamo mai stati giovanilisti, né rottamatori, vogliamo un rinnovamento inclusivo. Con una connessione forte con chi vogliamo rappresentare. Prendendoci il nostro spazio, senza aspettare che una società così patriarcale e paternalista ci consideri pronti. Perché non succederà».

Roma, 8 gennaio 2023